Stella doppia 61 Cygni Hal Clement Nel 1942, l’astronomo americano K. A. Strand annunciava che la stella doppia 61, nella costellazione del Cigno, aveva un satellite di massa planetaria, gravitante intorno al suo sole (una delle componenti il sistema binario 61 Cygni) in poco meno di cinque anni. La massa di questo pianeta extrasolare era stata calcolata dallo Strand circa 16 volte superiore alla massa di Giove. Sebbene nei mesi successivi fossero fatte altre segnalazioni di corpi planetari gravitanti intorno ad altri Soli (per esempio il satellite della stella 70 Ophiuchi, con una massa 10 volte superiore alla massa di Giove, e il satellite di Proxima Centauri, la stella a noi più vicina, il quale non sarebbe che il doppio della massa di Giove!), pure la comunicazione dello Strand è una delle più sensazionali: per la prima volta la scienza poteva ufficialmente annunciare l’esistenza di pianeti al di là del sistema solare! E’ sul satellite planetario scoperto dallo Strand che Hal Clement, astronomo egli stesso e insegnante di matematica a Cambridge, si è ispirato per questo suo affascinante romanzo. Immaginate che cosa possa significare vivere su un immenso pianeta, la cui atmosfera è prevalentemente composta d’idrogeno, metano e ammoniaca; dove la forza di attrazione gravitazionale è circa tre volte all’equatore quella della Terra, ma per l’enorme schiacciamento dei poli sale a quasi 700 volte nelle regioni polari; dove dato il velocissimo moto di rotazione del pianeta il sole sorge e tramonta ogni venti minuti, mentre un altro sole, molto più lontano, illumina il cielo senza illuminarlo. Hal Clement Stella doppia 61 Cygni (Mission Of Gravity, 1954) Capitolo 1 LA BUFERA Il vento che arrivava dalla baia sembrava una cosa viva. Lacerava e sconvolgeva la distesa d’acqua in un pulviscolo di frammenti cosi minuti che era difficile stabilire dove finisse l’elemento liquido e dove cominciasse l’atmosfera. Il vento sembrava sempre sul punto di sollevare ondate capaci di spazzare via la «Bree» come un sughero, ma poi le disperdeva in miriadi di spruzzi impalpabili, prima che riuscissero ad alzarsi di mezzo metro. Solamente gli spruzzi arrivavano fino a Barlennan, che se ne stava comodamente sdraiato, in alto, sul castello di poppa della «Bree». Già da un pezzo aveva portato la nave al sicuro in secca sulla spiaggia, cioè da quando aveva capito di dover passare l’inverno lì. Tuttavia non poteva fare a meno di sentirsi un po’a disagio anche dopo questa decisione. Quelle ondate erano le più alte che avesse mai visto in mare, e in un certo senso non trovava del tutto rassicurante nemmeno sapere che proprio la mancanza di peso, se da una parte permetteva alle onde di alzarsi tanto, dall’altra avrebbe anche impedito ai flutti di provocare veri e propri danni, se fossero riusciti a spingersi molto addentro sulla spiaggia. Il Comandante Barlennan non era particolarmente superstizioso, ma trovandosi così vicino agli Orli del Mondo, non avrebbe davvero saputo dire cosa poteva succedere. Perfino l’equipaggio, che certo non era dotato di molta immaginazione, ogni tanto mostrava evidenti segni di malessere. Era la maledizione che regnava in quella regione, mormoravano… Qualunque mistero ci fosse al di là dell’Orlo, la cosa che mandava le terribili raffiche di vento invernale a spazzare per migliaia di chilometri quella parte del mondo poteva non gradire di essere disturbata dalla spedizione di Barlennan. Al minimo incidente l’equipaggio ricominciava a mormorare, e di incidenti, lievi o gravi che fossero, se ne verificavano spesso. Chiunque pesi poco più di un chilogrammo, invece dei duecentocinquanta a cui è stato abituato per tutta la vita, si trova nella condizione di commettere un sacco di errori. Era una costatazione ovvia per il Comandante, ma lui aveva una mentalità scientifica e l’abitudine a pensare in termini logici e razionali. Perfino Dondragmer, che avrebbe dovuto comportarsi molto meglio… Il lungo corpo di Barlennan si tese, e il Comandante si accorse di essersi messo a urlare ordini, prima ancora di essersi reso conto fino in fondo di cosa stava succedendo a metà circa della nave. Il Secondo aveva scelto proprio quel momento, a quanto pareva, per verificare la resistenza dei sostegni di uno degli alberi e, approfittando della quasi totale mancanza di peso, aveva cercato di rizzarsi verticalmente sul ponte in tutta la sua altezza. La vista di quel corpo torreggiante, in precario equilibrio sulle sei gambe più arretrate, era uno spettacolo fantastico, e anche se ormai tutto l’equipaggio della «Bree» era abituato da un pezzo a giochetti del genere, non fu l’acrobazia ciò che colpì Barlennan. Quando il proprio peso si aggira sul chilo o poco più, ci si deve tenere aggrappati a qualcosa, altrimenti si viene spazzati via con la prima raffica di vento, e nessuno può tenersi aggrappato a qualcosa con sei gambe in movimento. Quando la nuova raffica si fosse abbattuta sulla nave… ma già non era più possibile sentire gli ordini, anche se Barlennan urlava a squarciagola. Era ormai arrivato strisciando oltre lo spazio vuoto di sicurezza che lo separava dalla scena dell’azione, quando notò che il suo Secondo aveva assicurato un gruppo di cavi al proprio equipaggiamento e al ponte, legandosi alla nave così saldamente come l’albero stesso a cui lavorava. Barlennan si rilassò ancora una volta. Conosceva il motivo che aveva spinto Don a comportarsi cosi: non era che un gesto di sfida all’ignota causa che aveva provocato quella tremenda bufera e stava deliberatamente imponendo a tutto l’equipaggio quell’atteggiamento di noncuranza di fronte al pericolo. Bravo ragazzo, pensò Barlennan, e di nuovo rivolse l’attenzione alla baia. Nessuno di loro, in quel momento, avrebbe potuto dire dove si trovava la linea costiera. Un vortice accecante di spruzzi e di sabbia bianca nascondeva ogni cosa che fosse a più di cento metri di distanza dalla «Bree», in tutte le direzioni. Anche la nave cominciava a non essere quasi più visibile, mentre le goccioline di metano lanciate a tutta velocità dal vento colpivano come tante pallottole, spiaccicandosi sopra le conchiglie oculari. Per lo meno il ponte, sotto i suoi molteplici piedi, era ancora saldo come una roccia; e il battello, benché fosse alleggerito di molto, non sembrava disposto a farsi spazzare via dal vento. Cosa impossibile, ad ogni modo, si disse il Comandante, pensando alle decine di cavi che trattenevano la nave alle ancore profondamente sepolte nella sabbia e ai bassi alberi che punteggiavano la spiaggia. Impossibile, certo, eppure la sua non sarebbe stata davvero la prima nave a scomparire durante una spedizione così pericolosamente vicina all’Orlo. Forse i sospetti dell’equipaggio nei confronti del Volatore non erano del tutto infondati. In fin dei conti, quella strana creatura lo aveva persuaso a fermarsi lì per tutto l’inverno e in un certo senso era riuscita a convincerlo senza garantire la minima protezione alla nave o all’equipaggio. D’altra parte, se il Volatore avesse voluto annientarli, avrebbe potuto farlo molto più facilmente e direttamente che non ingannandoli a parole. Se quell’immensa macchina su cui viaggiava avesse dovuto passare sulla «Bree» anche in questa parte del mondo, dove il peso aveva così poca importanza, sarebbe stata la fine. Barlennan si costrinse a pensare ad altro. Conosceva l’esatta misura del terrore congenito di tutti i meskliniti all’idea di stare, sia pure per breve tempo, sotto qualunque massa solida. Già da un pezzo l’equipaggio si era rifugiato sotto i pesanti teli del ponte: persino il Secondo aveva smesso di lavorare, ora che la bufera si abbatteva con tutta la sua forza su quel tratto di costa. Erano tutti presenti: Barlennan aveva contato le gibbosità sotto i teli di protezione quando ancora poteva vedere per intero la nave. I cacciatori non erano usciti, e del resto nessun marinaio aveva avuto bisogno di sapere dal Volatore che si stava avvicinando una tempesta. Nessuno, da dieci giorni a quella parte, si allontanava dalla nave oltre gli otto chilometri di sicurezza, e con quella mancanza di peso otto chilometri non erano certo una distanza notevole! Non mancavano le scorte, naturalmente. Barlennan non era uno sciocco e si era preoccupato che l’approvvigionamento fosse più che sufficiente. Tuttavia, vettovaglie fresche erano quanto mai desiderabili. Si chiese per quanto tempo quel nuovo uragano li avrebbe tenuti prigionieri. Ecco una cosa che gli strumenti non rivelavano, mentre non mancavano mai di segnalare l’arrivo di qualunque perturbazione atmosferica. Forse il Volatore lo sapeva. Comunque, non c’era altro da fare per proteggere la nave, e tanto valeva parlare a quella strana creatura. Barlennan provava ancora un moto d’incredulità quando guardava l’apparecchio che gli aveva dato il Volatore, insistendo molto sulle portentose virtù dei suoi poteri. L’apparecchio, protetto da una custodia, si trovava sul castello di poppa accanto a Barlennan. Era un blocco apparentemente solido lungo un sette centimetri e alto e largo circa la metà. A una delle estremità della superficie opaca brillava un punto trasparente, che aveva tutto l’aspetto, e probabilmente le funzioni, di un occhio. L’unica altra caratteristica dell’oggetto era un piccolo foro rotondo su una delle facce oblunghe. L’apparecchio giaceva con questa faccia rivolta verso l’alto e con l’estremità «oculare» che sporgeva leggermente da sotto il telo di custodia. Il telone si apriva sottovento, com’era logico così che il tessuto aderiva ora strettamente alla superficie della macchina. Barlennan infilò a fatica un braccio sotto la custodia muovendo la mano a tastoni fino a trovare il foro, in cui andava inserita la sua pinza. L’apparecchio non aveva nessun pezzo mobile, come una manopola o un bottone o una leva, ma la cosa non lo preoccupava affatto, perché non gli era mai capitato di vedere congegni del genere, così come non aveva mai visto relè termicofotonici a capacità elettrica. L’esperienza gli aveva insegnato che se inseriva un qualsiasi oggetto opaco in quel foro inevitabilmente il Volatore lo veniva a sapere. Perché poi succedesse cosi, non tentava nemmeno di capirlo. Era un po’, si diceva talvolta con tristezza, come voler insegnare arte nautica a un bambino di dieci giorni. Potevano anche avere l’intelligenza necessaria per capire — ed era comunque un pensiero confortante — ma mancavano assolutamente dell’esperienza diretta che poteva svilupparsi soltanto nel corso di parecchi anni. — Qui è Charles Lackland — disse improvvisamente la macchina, interrompendo le sue riflessioni. — Sei tu, Barl? — Sì, qui è Barlennan, Charles. — Il Comandante parlava la lingua del Volatore, e ogni giorno faceva sempre nuovi progressi. — Sono molto contento di avere tue notizie. Hai visto che non ci eravamo sbagliati nel prevedere questa piccola bufera? — È arrivata proprio quando avevi detto tu. Un momento… sì, c’è della neve insieme col vento. Non me n’ero accorto. Ma non vedo ancora traccia di polvere, ad ogni modo. — Verrà. Quel vulcano deve averne vomitato nell’atmosfera circa quindici chilometri cubi, e ormai sono parecchi giorni che la nube di polvere si va espandendo. Barlennan non continuò il discorso. Il vulcano in questione era ancora fonte di incomprensione fra loro, perché sembrava trovarsi in una regione del pianeta Mesklin che, secondo le conoscenze geografiche di Barlennan, non esisteva. Perciò, cambiando argomento, disse: — Quello che mi stavo domandando, Charles, è quanto durerà questa bufera. So che i tuoi uomini possono vederla dall’alto, e dovrebbero quindi essere in grado di valutarne l’entità. — Ti trovi già in pericolo? L’inverno è appena cominciato… hai davanti migliaia di giorni prima di poter uscire da questa zona. — Lo so. Le scorte di vettovaglie sono più che abbondanti, ma ogni tanto si sente la necessità di un po’«di cibo fresco, e sarebbe utile sapere in anticipo quando potremo mandare fuori una spedizione di caccia, o anche due. — Capisco. Ma ho paura che dovranno calcolare i tempi con molta precisione. Non mi trovavo in questa zona l’inverno scorso, ma so che durante l’inverno le bufere si susseguono in modo pressoché ininterrotto. Ci sei stato veramente nella regione equatoriale, in passato? — Dove? — Nella… ah, credo che quando parlate dell’Orlo in realtà vi riferiate all’Equatore. — No, non mi sono mai spinto tanto vicino all’Orlo, e non vedo come qualcuno possa avanzare oltre un certo limite. La mia impressione è che se ci spingessimo ancora di più verso l’alto mare finiremmo per perdere anche gli ultimi residui di peso e voleremmo via come pagliuzze. — Se ti è di conforto, posso assicurarti che ti sbagli. Continuando ad andare verso l’alto mare, il vostro peso ricomincerebbe ad aumentare. In questo momento sei sulla linea dell’Equatore, cioè proprio dove si pesa meno. È per questo che io mi trovo qui. Ora comincio a capire perché tu non vuoi credere che ci siano terre molto più a nord. All’inizio, quando abbiamo cominciato a parlare di queste cose, pensavo che dipendesse dalla nostra difficoltà di comunicare, ma adesso credo che tu abbia il tempo di spiegarmi le tue idee circa la natura di questo mondo. O forse possiedi delle carte geografiche, delle mappe…? — Naturalmente, abbiamo una «coppa» qui, sul castello di poppa, ma temo che tu non possa vederla, adesso che il sole è appena tramontato ed Esstes non dà luce sufficiente con tutta questa nuvolaglia. Domani, quando sorgerà il sole, te la mostrerò. Le mie carte geografiche non ti sarebbero di molto aiuto, perché nessuna di esse riproduce territori abbastanza estesi da fornire un quadro sufficientemente chiaro della regione. — Capito, Ma, in attesa dell’alba, non potresti descrivermele a voce? — Non sono sicuro di essere padrone della tua lingua fino a questo punto. Comunque proverò. A scuola mi hanno insegnato che il nostro pianeta è come una grande coppa dalla cavità molto profonda. La zona in cui vive la maggior parte della popolazione è vicina al fondo della coppa, dove il peso è più forte. Secondo la teoria dei nostri saggi questo peso è causato da una specie d’immenso vassoio piatto su cui posa Mesklin. Più ci si allontana dal fondo verso l’Orlo, più il nostro peso diminuisce e, perché nello stesso tempo ci si allontana anche dal vassoio. Su cosa poi sia posato il vassoio, nessuno lo sa. Al riguardo si sentono raccontare una quantità di strane leggende, soprattutto da parte delle razze meno civilizzate. — Mi sembra che i tuoi saggi avrebbero ragione, se uno si accorgesse di salire verso l’alto tutte le volte che si allontana dal fondo della coppa, cioè dal centro, e se tutti gli oceani tendessero a raccogliersi verso il punto più basso, vale a dire al centro della coppa — obiettò Lackland. — Non hai mai approfondito la questione con uno di loro? — Da giovane ho visto un disegno che spiegava tutta la situazione. Il diagramma del mio maestro mostrava una grande quantità di linee che salivano dal vassoio e si piegavano per incontrarsi esattamente nel centro di Mesklin. Il loro tracciato lungo la coppa seguiva praticamente una linea retta, a causa della curvatura, e il maestro disse che il peso si scaricava lungo quelle linee invece di correre direttamente giù verso il vassoio. Non riuscii a capire bene, ma il ragionamento mi sembrò abbastanza logico. L’ipotesi, ho saputo poi, aveva la sua conferma nei fatti. Infatti le distanze rilevate sulle carte concordavano esattamente con quelle calcolate in base alla teoria. E questa è una cosa che posso capire facilmente, e mi sembra rappresenti un punto fermo. Se la forma non corrispondesse a quella indicata dai saggi, le distanze risulterebbero tutte sbagliate, appena si cominciasse ad allontanarsi dal nostro punto medio d’osservazione. — Giustissimo. Vedo che i tuoi saggi sono molto istruiti in fatto di geometria. Quello che non riesco a capire è perché non si siano resi conto che sono due le forme che danno alle distanze il loro giusto valore. In fin dei conti, non puoi vedere anche tu che la superficie di Mesklin s’incurva verso il basso? Se la vostra teoria fosse esatta, l’orizzonte dovrebbe trovarsi in alto, sopra la tua testa. Non ti pare? — Capisco. Ecco perché le tribù primitive affermano che il nostro pianeta ha la forma di una coppa. È soltanto qui, nelle vicinanze dell’Orlo, che le cose sembrano diverse. Deve dipendere, penso, dalla luce. Dopo tutto, in questa regione il sole sorge e tramonta anche d’estate, e non vedo perché ci si dovrebbe meravigliare se tutto quanto appare piuttosto strano. Diamine, si direbbe quasi che l’orizzonte… è così che lo chiami, vero?… sia più vicino a noi a nord e a sud di quanto non sembri a est e a ovest. Una nave, la si può vedere molto più lontana a est o a ovest. Dipende dalla luce, sicuramente. — Mmm! Penso che per il momento sia alquanto difficile rispondere alla tua osservazione. — Barlennan non conosceva così bene il modo di parlare del Volatore da accorgersi di una lieve sfumatura ironica nella sua voce. — Non mi sono mai trovato in un punto della superficie molto lontano dall’Orlo, come lo chiami tu, e, personalmente, non potrò mai trovarmici. Fino ad ora non mi ero reso conto che le cose potessero apparire come le hai descritte tu, e non riesco nemmeno a capire perché debbano sembrare così, almeno per il momento. Comunque, spero di riuscirci quando porterai quell’apparecchio radiotelevisore nella nostra piccola spedizione. — Sarà una gioia per me sentire le tue spiegazioni sugli errori dei nostri saggi — disse Barlennan cortesemente. — Quando sarai disposto a farlo, voglio dire. Frattanto, sono molto curioso di sapere da te quando ci sarà una tregua in questa serie di bufere. — Basteranno pochi minuti per avere una risposta dalla nostra stazione meteorologica su Toorey. Ti chiamerò verso l’alba e ti comunicherò le previsioni; per allora avremo abbastanza luce perché tu possa mostrarmi la coppa. D’accordo? — Benissimo. Aspetterò. — Barlennan si rannicchiò presso l’apparecchio, mentre l’uragano infuriava intorno a lui. Le pallottole di metano che gli bombardavano la schiena corazzata non lo disturbavano, perché colpivano con molta più violenza nelle latitudini più elevate. Ogni tanto, si dava una specie di scrollatina per liberarsi del leggero strato di ammoniaca che continuava ad accumularsi sul vascello, ma anche l’ammoniaca, almeno per il momento, non rappresentava un grosso fastidio. Verso la metà dell’inverno, cioè dopo cinque o seimila giorni, lo strato di ammoniaca avrebbe cominciato a sciogliersi sotto i raggi del sole, per poi riconsolidarsi quasi subito. L’essenziale era liberare il vascello da quella specie di nevischio prima della seconda gelata, altrimenti l’equipaggio di Barlennan sarebbe stato costretto a spaccare il ghiaccio tutt’intorno alla spiaggia per un tratto equivalente a duecento lunghezze di nave. La «Bree» non era un battello fluviale, ma una vera e propria nave oceanica. Come aveva promesso, il Volatore ottenne in pochi minuti le informazioni meteorologiche richieste. La sua voce risuonò ancora una volta nel minuscolo altoparlante dell’apparecchio, proprio quando i primi raggi del sole rischiaravano la coltre di nubi che si era addensata sulla baia. — Ho paura di non essermi sbagliato, Barl. Non c’è nessuna tregua in vista. Praticamente l’intero emisfero boreale, espressione che per te non ha nessun significato, sta liberandosi della sua calotta di ghiaccio con estrema violenza. So che in genere queste bufere durano per tutto l’inverno, senza interruzioni, anche se in realtà le tempeste si susseguono separatamente nelle più elevate latitudini australi, per poi frantumarsi per effetto dell’accelerazione di Coriolis a mano a mano che si allontanano dall’equatore. — Per effetto di che? — È una legge fisica, la stessa per cui se lanci un proiettile lo vedrai sempre deviare verso sinistra… — Che cosa significa «lanciare»? — Oh, già, non avevamo mai usato prima questo termine, vero? Ecco, lanciare è l’azione che tu compi quando raccogli un oggetto e lo spingi con forza lontano da te, facendogli compiere un certo percorso in aria prima che tocchi di nuovo il suolo. — È un’azione che non facciamo mai nelle regioni dove le condizioni sono più normali di qui. Ci sono moltissime cose che si possono fare qui vicino all’Orlo, e che altrove sono impossibili o per lo meno pericolose. Se io dovessi «lanciare» un oggetto nella zona dove vivo di solito, non toccherebbe il suolo ma qualcuno, e quasi certamente me. — In effetti potrebbe rivelarsi piuttosto pericoloso. Tre G qui all’equatore sono già un bel fastidio; e ai poli si arriva addirittura quasi a settecento. Eppure, se tu trovassi un oggetto abbastanza piccolo da poterlo prendere e lanciare, perché non potresti riprenderlo al volo o almeno ridurne l’urto di caduta? — Mi è difficile immaginare una possibilità del genere, comunque credo di saperti rispondere. Mi mancherebbe il tempo. Se un oggetto viene lasciato andare, lanciato o non lanciato, ricade al suolo prima che si possa fare il minimo gesto. Raccogliere un oggetto e portarlo con sé è una cosa, strisciare è un’altra; ma lanciare un oggetto e… si dice saltare?… sono cose molto diverse. — Già, immagino sia cosi. Noi eravamo partiti dall’idea che la durata delle vostre reazioni fosse proporzionale alla gravità, ma adesso capisco che il nostro era un ragionamento antropocentrico. — Il tuo discorso, per quanto ho potuto capire, mi sembra ragionevole. Non ci sono dubbi che siamo molto diversi, noi e voi. Ma almeno abbiamo una cosa in comune: la possibilità di comunicare intelligentemente. E questo, spero, ci permetterà di arrivare a un’intesa vantaggiosa per entrambi. — Ne sono convinto. E allora sarà meglio che tu mi faccia un quadro preciso dei luoghi dove intendi andare. Da parte mia, ti indicherò sulle tue mappe le zone dove desidero che tu vada. Non si potrebbe dare un’occhiata a questa «coppa» adesso? C’è luce sufficiente per l’apparecchio visivo. — Certo. Però la «coppa» è sul ponte e mi è impossibile rimuoverla. Non mi resta che spostare l’apparecchio in modo che tu la possa vedere. Aspetta un istante. Barlennan si diresse, strisciando attraverso la nave, verso un punto ricoperto da un telo e intanto si attaccava alle bitte del ponte. Finalmente scostò il telo e lasciò allo scoperto un punto più chiaro dell’assito. Poi tornò indietro, assicurò l’apparecchio fonotelevisivo con quattro cavi saldamente annodati alle bitte strategicamente disposte, ne tolse la custodia e cominciò a trascinarlo sul ponte. Lo strumento pesava più di quanto Barlennan avesse calcolato, anche se le sue dimensioni lineari erano ridotte, ma il Comandante non voleva correre il rischio di vederselo spazzare via da una raffica di vento. La violenza della bufera non si era affatto attenuata, e ogni tanto il ponte scricchiolava e gemeva paurosamente. Con l’estremità oculare dell’apparecchio che quasi toccava la «coppa», Barlennan rialzò l’altra estremità puntellandola con un sostegno, in modo che il Volatore potesse guardare verso il basso. Poi si spostò sull’altro lato della «coppa» e cominciò la sua lezione. Lackland dovette riconoscere che sulla «coppa» la raffigurazione della superficie di Mesklin era stata fatta con logica e con notevole accuratezza. La curvatura corrispondeva esattamente a quella del pianeta, come si era aspettato. L’errore principale consisteva nel fatto che la curva era concepita concava, conformemente all’idea errata degli indigeni sulla forma del loro mondo. Aveva una larghezza di circa quindici centimetri, con una profondità di tre centimetri al centro. La «coppa» era protetta da un involucro trasparente — probabilmente di ghiaccio, pensò Lackland — e ciò rendeva più difficile a Barlennan far rilevare i particolari topografici, ma non si poteva togliere l’involucro senza che la «coppa» stessa si riempisse in pochi istanti di neve ammoniacale. Neve che si ammonticchiava su qualunque cosa si trovasse contro vento. La spiaggia rimaneva relativamente sgombra, ma tanto Lackland quanto Barlennan potevano immaginare benissimo cosa doveva succedere sull’altro versante delle montagne che a sud correvano parallele alla linea costiera. Barlennan si congratulò segretamente con se stesso di essere un marinaio. I viaggi sulla terraferma in quella regione non avrebbero rappresentato certo una gita di piacere per qualche migliaio di giorni ancora. — Ora — disse al Volatore — circa i posti dove intendo andare, ti dirò che non ho particolari preferenze. Posso comperare e vendere ovunque, e per il momento a bordo ho ben poco che non siano vettovaglie. E anche di quelle, alla fine dell’inverno non me ne rimarranno molte. Per cui avevo progettato, dopo la nostra conversazione, di incrociare per qualche tempo intorno alle regioni di minore gravità e di raccogliere un buon quantitativo di certi prodotti vegetali molto ricercati dalle popolazioni che si trovano più a sud, per l’effetto che producono sui cibi. — Spezie? — Se questa è la parola che usate per questi prodotti, sì, spezie. Ne ho già trasportate e le preferisco… si può guadagnare molto da un solo carico, e del resto ciò avviene per tutte le merci che sono ricercate più per la loro rarità che per l’utilità. — Ma allora, quando avrai finito di fare il carico, qui, avrà per te poca importanza la rotta da seguire per arrivare a destinazione? — Precisamente. Credo di avere capito che i tuoi scopi ci porteranno vicino al Centro, e la cosa non mi dispiace affatto: più si va verso sud e più alti saranno i prezzi della mia merce, senza contare che un viaggio lungo, qualora dovesse risultare pericoloso, sarà compensato dall’aiuto che ci hai promesso. — Proprio cosi. Il nostro accordo è questo anche se avrei preferito trovare qualcosa con cui pagarti, in modo da evitarti la necessità di dedicare tempo alla raccolta delle spezie. — Lo so. Ma d’altra parte dobbiamo pur mangiare. Tu stesso hai detto che i vostri corpi, e quindi i vostri cibi, sono composti di sostanze molto diverse dalle nostre, e che a noi è impossibile usufruire delle vostre vettovaglie. E di materie prime, metalli e simili, posso trovarne con facilità quanti ne voglio. Mi piace invece pensare che un giorno potremo avere qualcuna delle vostre macchine, benché tu dica che dovrebbero essere ricostruite da cima a fondo per poter funzionare nelle nostre condizioni. Comunque mi sembra che il nostro accordo sia il migliore possibile, date le circostanze. — Verissimo. Anche questo apparecchio radiotelevisivo è stato costruito apposta per voi, e tu non potresti nemmeno ripararlo, perché, se non mi sbaglio, il tuo equipaggio non possiede gli strumenti adatti. Durante il viaggio potremo ad ogni modo ritornare sull’argomento. Forse le cose che ogni volta impariamo l’uno dall’altro potranno aprire nuove e migliori possibilità. — Ne sono certo — disse cortesemente Barlennan. Non accennò, naturalmente, alla possibilità di realizzare i suoi piani segreti: il Volatore ben difficilmente li avrebbe approvati. Capitolo 2 IL VOLATORE Le previsioni del Volatore risultarono esatte: dovettero passare più di quattrocento giorni prima che la bufera si calmasse in maniera sensibile. Per cinque volte durante quel periodo il Volatore parlò a Barlennan attraverso la radio, sempre iniziando con una breve previsione meteorologica e continuando poi la conversazione su argomenti più generali per un giorno o due ogni volta. Barlennan aveva già avuto modo di osservare, sia quando aveva cominciato a imparare la lingua di quella strana creatura, sia in occasione di visite alla sua posizione avanzata sulla «Collina» presso la baia, che il Volatore sembrava avere un ciclo vitale stranamente regolare. Aveva scoperto, cioè, di poter calcolare di trovarlo addormentato o intento a consumare i suoi pasti in periodi facilmente prevedibili, che sembravano avere un ciclo di circa ottanta giorni. Barlennan non era davvero uno scienziato e nemmeno un filosofo, anzi condivideva il pregiudizio di molti che consideravano i filosofi sognatori privi di senso pratico, e perciò si limitò ad accantonare lo strano fatto dei cicli del Volatore come una caratteristica implicita in una soprannaturale ma interessantissima creatura. Non c’era niente nell’ambiente del pianeta Mesklin che potesse suggerirgli l’idea dell’esistenza di un mondo che aveva bisogno di un tempo ottanta volte superiore al suo per compiere una rotazione sul proprio asse. La quinta chiamata di Lackland fu diversa dalle altre e particolarmente gradita per parecchie ragioni. Prima di tutto arrivò fuori programma, e poi portò il lieto annuncio che finalmente le condizioni meteorologiche sarebbero mutate in senso favorevole. — La stazione su Toorey ha chiamato pochi minuti fa — comunicò Lackland. — C’è un’area di schiarita che si sta avvicinando. Il mio amico non è sicuro sull’origine e la velocità dei venti, ma può vedere la superficie del pianeta attraverso l’atmosfera, e questo vuol dire che la visibilità dovrebbe essere buona. Se i tuoi cacciatori vogliono uscire in cerca di preda, credo di poterti assicurare che non saranno spazzati via dalle raffiche di vento, purché abbiano la pazienza di aspettare che le nuvole siano scomparse da almeno una ventina di giorni. Per un centinaio di giorni, poi, dovremmo avere condizioni meteorologiche eccellenti. Mi diranno con notevole anticipo quando i tuoi cacciatori dovranno rientrare. — Ma come faranno i cacciatori a saperlo? Se mando questa radio con loro, non potrò più parlare con te dei nostri affari e in questo caso non vedo… — Ho già riflettuto sul problema — lo interruppe Lackland. — Credo che faresti bene a venire qui da me, appena il vento si sarà un po’«calmato. Ti darò un altro apparecchio… forse non sarebbe male se tu ne avessi molti. Ho paura che il viaggio che intraprenderai per noi sarà pericoloso e so già che durerà a lungo. Cinquantamila e più chilometri in linea d’aria… e ancora non so di preciso quanti saranno per mare e quanti per via di terra. Le parole «linea d’aria» imposero una spiegazione. Per Barlennan, l’idea stessa del volo rappresentava qualcosa di terrificante e di soprannaturale. Il fatto poi che Lackland fosse in grado di volare, di viaggiare cioè attraverso l’aria, senza nessun contatto, nessuna aderenza al suolo, era per lui un fenomeno contro natura, così mostruoso e sconosciuto da ispirargli un senso di orrore. — Inoltre vorrei chiarire un’altra cosa con te — riprese Lackland. — Appena il tempo si sarà rasserenato abbastanza per un atterraggio, i miei compagni mi porteranno giù un trattore a cingoli. Forse, assistere all’atterraggio del razzo potrà abituarti un po’«di più all’idea di un essere vivente che vola. — Forse — disse Barlennan, poco convinto. — Non che io sia molto desideroso di vedere atterrare il tuo razzo. L’ho già visto una volta, lo sai, e… sì, preferirei che non ci fosse presente nessuno del mio equipaggio. — Ma perché? Credi che si spaventerebbero tanto da non essere più capaci di rendersi utili? — No — rispose con franchezza il mesklinita. — Non voglio che mi vedano spaventato come so che sarò io in quel momento. — Mi stupisci, Comandante — disse Lackland, cercando di dare alle proprie parole un’intonazione scherzosa. — Ma non pensare che non ti capisca. Ti prometto anche che il razzo non ti passerà sopra la testa. Se resterai ad aspettare di fianco alla mia cupola, dirigerò il pilota del razzo con la radio per essere certo di mantenere la mia promessa. — Ma quanto vicino passerà? — Oh, passerà a una discreta distanza in diagonale, te lo garantisco. Mi preoccupo della mia sicurezza, oltre che della tua serenità. Per atterrare su questo pianeta, anche se all’equatore, il pilota dovrà ricorrere a un getto violentissimo dei motori a razzo. E ti assicuro che non ho nessuna intenzione di danneggiare la mia cupola. — Va bene, verrò. Sono d’accordo con te che sarà molto vantaggioso poter disporre di un maggior numero di apparecchi radio. Che cos’è questo trattore a cingoli che hai nominato prima? — È una macchina che mi permetterà di spostarmi a piacere sulla terraferma, proprio come la tua nave ti serve a traversare gli oceani. La vedrai fra qualche giorno, se non addirittura fra qualche ora. Gli amici del Volatore di base sulla luna più interna del pianeta Mesklin avevano previsto giusto. Il Comandante, rannicchiato a poppa, dovette contare soltanto dieci aurore prima di notare i segni di una schiarita e di accorgersi di una sensibile diminuzione della forza del vento. In base alla sua esperienza personale, Barlennan era incline a ritenere che, come aveva detto il Volatore, il periodo di bonaccia sarebbe durato dai cento ai duecento giorni. Con un sibilo che avrebbe lacerato i timpani di Lackland, se fosse stato in grado di udire una frequenza così alta, il Comandante richiamò l’attenzione del suo equipaggio e cominciò a impartire ordini: — Provvederemo immediatamente a formare due gruppi di cacciatori. Dondragmer comanderà il primo, Merkoos il secondo. Ognuno dei due prenderà con sé nove marinai di sua scelta. Io rimarrò a bordo a coordinare le varie operazioni, dato che il Volatore intende darci delle altre macchine parlanti. Andrò a prenderle personalmente sulla Collina del Volatore appena il cielo si sarà schiarito a sufficienza. Le macchine, e altre cose a lui necessarie, saranno portate giù dal cielo dagli amici del Volatore, per cui tutto l’equipaggio resterà vicino alla nave fino al mio ritorno. Prepararsi a partire trenta giorni dopo che sarò partito. — Non sarà imprudente lasciare la nave così presto? Il vento sarà ancora molto forte. — Era stato il Secondo a parlare così, e Barlennan, conoscendo i suoi sentimenti di amicizia, mosse le pinze verso di lui in un modo che avresti interpretato come un sorriso. — Hai ragione. Ma ho bisogno di guadagnare tempo, e poi la Collina del Volatore è soltanto a un chilometro e mezzo di distanza. — Ma… — Il vento sta calando. Abbiamo molti chilometri di cavi sulla nave; me ne farò legare due alla corazza e due di voi… Berblannen e Hars, direi, sotto il tuo comando, Don… li faranno scorrere dalle bitte a mano a mano che mi allontano. Potrebbe succedermi di perdere l’equilibrio o di scivolare, ma se il vento dovesse essere così forte da spezzare delle buone gomene di nave, la «Bree» già da un pezzo sarebbe stata scaraventata per chilometri e chilometri nell’entroterra. — Sì, ma se ti dovesse capitare di essere sollevato dal vento nell’aria… — disse Dondragmer profondamente turbato. — Non dimenticare che siamo vicini all’Orlo — disse il Comandante — anzi il Volatore dice che siamo sull’Orlo, e gli posso credere quando guardo verso nord dalla cima della sua Collina. Del resto alcuni di voi hanno già esperimentato che una caduta non è pericolosa, in questa zona. — Ma tu ci avevi ordinato di comportarci come se avessimo il nostro peso normale in modo da non prendere abitudini che poi, al nostro ritorno nelle regioni abitabili, risultassero pericolose. — Verissimo, ma in questo caso è diverso. In nessuna regione abitabile ci potrebbe essere una raffica di vento tanto violenta da sollevarmi in aria. A ogni modo, si farà come ho detto: Berblannen e Hars avranno il controllo dei cavi, sotto il tuo comando. Questo è tutto per il momento. La vedetta può rimanere a riposo sotto la sua coperta. Il servizio di guardia sul ponte controllerà invece ancore e ormeggi. Dondragmer, che doveva montare di guardia sul ponte, interpretò l’ordine come un congedo e si allontanò per eseguire i suoi compiti con la solita prontezza e abilità. Si preoccupò anche che alcuni marinai ripulissero dalla neve gli spazi fra i rotoli di corde e di ormeggi, avendo riflettuto, con la stessa lucidità del suo Comandante, sulle possibili conseguenze di un disgelo seguito da una nuova gelata. Lo stesso Barlennan si rilassò, chiedendosi malinconicamente a quale antenato dovesse l’abitudine di ficcarsi, parlando, in situazioni sgradevoli da affrontare e impossibili da risolvere con eleganza. Infatti l’idea della corda era nata esclusivamente da un impulso del momento, e non da serie e mature riflessioni. In realtà, quando le corde lo calarono giù per quel mezzo metro che separava il ponte dalla spiaggia coperta di neve, la situazione non si rivelò poi così drammatica come Barlennan aveva temuto. L’inclinazione della spiaggia gli era favorevole, e poi gli alberi, che rappresentavano degli ottimi ormeggi per la «Bree», si facevano sempre più fitti, via via che il mesklinita si addentrava nella terraferma. Si trattava di una specie di macchia bassa e piatta, con grosse ramificazioni a forma di tentacoli e tronchi estremamente tozzi: una vegetazione abbastanza simile a quella che cresceva sulle terre conosciute dal Comandante, nella parte più bassa dell’emisfero australe di Mesklin. Ma qui i rami si inarcavano spesso quasi completamente fuori dal terreno, lasciati in relativa libertà da una forza gravitazionale di almeno duecento volte inferiore a quella delle regioni polari. Notò anche che le piante crescevano molto vicine le une alle altre, formando un intrico di rami scuri e marrone che forniva un appiglio eccellente. Barlennan, dopo qualche tempo, trovò il sistema di arrampicarsi verso la Collina. Si aggrappava con le pinze anteriori, dopo avere abbandonato la presa di quelle posteriori, poi spingeva avanti il lungo corpo a forma di bruco e si divincolava in modo da procedere un po’«come un verme. I cavi gli erano d’impaccio, perché si impigliavano ai rami, ma erano abbastanza lisci e scorrevoli. Tutto sommato procedeva con notevole sicurezza. Dopo i primi duecento metri la spiaggia si rivelò molto ripida, tanto che a metà della distanza che pensava di dover percorrere, Barlennan si trovò già due metri sopra il livello del ponte della «Bree». Il punto che aveva raggiunto era abbastanza alto da poter vedere la Collina del Volatore, anche con i suoi occhi di mesklinita, così vicini al terreno. Allora si fermò per osservare il panorama, come aveva già fatto molte altre volte. Il mezzo miglio che gli restava da percorrere non era che un groviglio di vegetazione bianca e marrone, molto simile a quella che aveva già attraversato, ma più intricata. Torreggiante sulla boscaglia si levava la Collina del Volatore. Al mesklinita era molto difficile pensarla come una struttura artificiale, in parte per le sue mostruose dimensioni, in parte perché qualunque specie di tetto che non fosse un telo fatto di qualche tessuto di fibra, era totalmente estraneo alla sua idea dell’architettura. La Collina era invece una scintillante cupola metallica alta almeno sette metri e con un diametro di una dozzina: quasi un perfetto emisfero. Era costellata di ampie superfici trasparenti e aveva due estensioni cilindriche che contenevano le porte di accesso. Il Volatore aveva detto che quegli ingressi erano costruiti in modo che vi si poteva passare senza lasciare entrare o uscire l’aria esterna o quella interna. Le porte erano sufficientemente grandi anche per una creatura dalle dimensioni gigantesche del Volatore. Da una delle finestre più basse partiva una rampa improvvisata che saliva fino al livello del davanzale, permettendo cosi a un essere come Barlennan di strisciare fino ai vetri per guardare dentro. Il Comandante aveva passato molto tempo su quella rampa, quando aveva cominciato a parlare la lingua del Volatore, e aveva visto gran parte degli strani apparecchi e degli arredi che riempivano l’interno della struttura, pur non avendo la minima idea dello scopo a cui servivano. Il Volatore stesso aveva l’aria di essere una creatura anfibia, o almeno passava molto del suo tempo a galleggiare in una cisterna piena di liquido. Fatto abbastanza logico, data la sua corporatura. Barlennan non conosceva nessuna forma vivente sul pianeta che avesse dimensioni maggiori di quelle della propria razza, la quale non era l’unica ad abitare le acque oceaniche o lacustri… sebbene si rendesse conto che, anche solo per quanto riguardava il peso, creature molto più grandi potevano esistere nelle vaste e quasi inesplorate regioni che si stendevano vicino all’Orlo. Sperava comunque di non doverne mai incontrare, almeno fino a quando fosse confinato a terra. Dimensioni significavano peso, e i condizionamenti di una vita intera l’obbligavano a considerare il peso simbolo di minaccia. Presso la cupola c’era la solita onnipresente vegetazione. Era chiaro che il razzo non era ancora arrivato, e per un istante Barlennan accarezzò l’idea di aspettare l’arrivo della macchina volante lì dove si trovava. Senza dubbio, il razzo sarebbe atterrato sul lato più lontano della Collina: ci avrebbe pensato il Volatore, se Barlennan non fosse ancora arrivato. Ma non c’era niente che impedisse alla nave volante di passare al di sopra del punto dove lui si trovava ora. Lackland non avrebbe potuto impedirlo, non sapendo dove fosse il mesklinita. Erano pochi i terrestri in grado di localizzare un corpo, lungo quaranta centimetri e con un diametro di cinque, che strisciava in senso orizzontale attraverso una vegetazione particolarmente intricata a ottocento metri di distanza. No, gli conveniva spingersi senza indugio fino alla cupola, come il Volatore gli aveva consigliato. Il Comandante riprese la marcia, sempre trascinandosi dietro le corde. Benché avesse un’andatura media abbastanza elevata, era notte quando giunse alla meta. L’ultima parte del suo viaggio era stata però illuminata dalla luce che scaturiva dalle finestre davanti a lui. Ma quando finalmente arrivò davanti alla finestra in cima alla rampa, il sole si era già levato all’orizzonte alla sua sinistra. Poiché le nuvole erano scomparse quasi del tutto (il vento era tuttavia ancora molto impetuoso), Barlennan sarebbe riuscito a vedere nell’interno oltre i vetri, anche se le luci dentro la cupola fossero state spente. Lackland non si trovava nella camera su cui dava quella finestra, perciò il mesklinita premette il minuscolo pulsante di chiamata inserito in cima alla rampa. Immediatamente, la voce del Volatore risuonò dall’altoparlante a fianco: — Lieto che tu sia qui, Barl. Ho fatto in modo di trattenere Mach fino a quando tu non fossi arrivato. Adesso lo farò scendere subito. Sarà qui al massimo per la prossima aurora. — Dove si trova in questo momento? Su Toorey? — No. Incrocia presso il margine interno dell’anello, a soli mille chilometri di altezza. È là da molto prima che la bufera finisse, quindi non pensare che sia rimasto ad aspettare per causa tua. Ora, prima che arrivi porterò fuori gli altri apparecchi radio che ti avevo promesso. — Dato che sono solo, non credi che convenga portarne uno soltanto? Quegli apparecchi sono macchine piuttosto massicce e ingombranti. — Hai ragione. Ci conviene aspettare il trattore a cingoli. Con il trattore potremo trasportare te e gli apparecchi radio fino alla nave. Tu ti attaccherai all’esterno, così l’atmosfera interna non ti farà male. — D’accordo. E possiamo parlare un po’, mentre aspettiamo, o hai da mostrarmi altre immagini del mondo da cui provieni? — Certo che ne ho. Sono necessari pochi minuti per montare il proiettore, e sarà ancora abbastanza buio quando avrò finito. Un momento solo! L’altoparlante tacque, e Barlennan tenne gli occhi fissi sulla porta che si scorgeva in fondo alla camera. Dopo pochi istanti comparve il Volatore, che come al solito camminava eretto con l’aiuto degli arti artificiali che chiamava grucce. Si avvicinò alla finestra, con la testa massiccia abbozzò un cenno d’assenso al minuscolo spettatore al di là dei vetri e si dedicò al proiettore cinematografico. Lo schermo verso cui puntava la macchina si trovava sulla parete direttamente di fronte alla finestra, e Barlennan, tenendo un paio d’occhi fissi sulle mosse dell’essere umano, si acquattò in una posizione da cui poteva osservare ogni cosa molto più comodamente. Attese in silenzio, mentre il sole passava in un pigro arco sulla sua testa. Faceva caldo, nella piena luce del sole, un caldo gradevole, anche se non così forte da provocare un disgelo. Il vento perenne che soffiava dalla calotta polare del nord lo impediva. Stava quasi sonnecchiando, quando Lackland, terminato di mettere a punto la macchina, scavalcò l’orlo della sua vasca di riposo e vi si calò dentro. Barlennan non aveva mai notato la membrana elastica sulla superficie del liquido che manteneva asciutti gli abiti del Volatore; altrimenti avrebbe cambiato idea sulla natura anfibia degli esseri umani. Dalla sua posizione galleggiante, Lackland alzò un braccio verso un piccolo pannello e schiacciò due pulsanti. Le luci della camera si spensero e il proiettore cominciò a funzionare. La pellicola durava una quindicina di minuti e non era ancora finita quando Lackland dovette rimettersi in piedi sulle grucce. Era arrivata la comunicazione che il razzo stava atterrando. — Vuoi vedere come se la cava Mack o preferisci assistere alla fine della pellicola? — chiese al mesklinita. — Mack probabilmente sarà già sceso a terra, quando la pellicola sarà terminata. Con una certa riluttanza Barlennan distolse la propria attenzione dallo schermo: — Preferirei vedere la pellicola, ma sarà meglio che mi abitui allo spettacolo delle macchine volanti — disse. — Da quale parte scenderà il tuo compagno? — Da est, credo. Ho fornito a Mack una descrizione molto precisa del posto, senza contare le fotografie che lui aveva già a disposizione. Un atterraggio da quella parte sarà più facile, data l’inclinazione della sua rotta. Per il momento il sole disturba la tua visuale, ma il mio amico si trova ancora a un’altezza di circa quaranta miglia… guarda bene al di sopra del sole. Barlennan seguì le istruzioni ricevute e rimase in attesa. Per circa un minuto non riuscì a vedere nulla. Poi, a un tratto, scorse uno scintillio metallico a circa venti gradi sopra il sole nascente. — Altezza dieci, distanza orizzontale quasi identica — disse Lackland nello stesso istante. — L’ho intercettato col telescopio. Lo scintillio metallico si fece più vivido e intenso, seguendo la rotta indicata senza la minima deviazione: il razzo si dirigeva direttamente sulla cupola. Nello spazio di un minuto si era avvicinato abbastanza da rendere visibile ogni particolare, anche se tutto si confondeva nei bagliori del sole appena sorto, tanto più che Mack lo tenne immobile per un istante a un miglio circa d’altezza sopra la stazione, lievemente spostato verso est. Barlennan riusciva persino a vedere gli oblò e gli ugelli lungo i fianchi e alle estremità dello scafo cilindrico. La bufera s’era placata quasi del tutto, ma all’improvviso una calda brezza carica d’un forte odore di ammoniaca disciolta cominciò a soffiare dal punto dove i getti del razzo investivano il terreno. Minutissime gocce di una sostanza semiliquida caddero sulle conchiglie oculari di Barlennan, che continuò tuttavia a fissare la massa metallica che si stava lentamente posando sulla superficie del pianeta. Ogni muscolo del suo corpo oblungo era teso fino allo spasimo, le membra anteriori strette ai fianchi, le pinze in una posizione di combattimento così rigida che avrebbero potuto tagliare un reticolato di cavi d’acciaio, i cuori dei vari segmenti del suo corpo, palpitanti furiosamente. Avrebbe certo trattenuto il fiato, se avesse avuto un apparato respiratorio uguale a quello di un essere umano. Sapeva in teoria che quel razzo non sarebbe precipitato, e continuava a ripeterselo; ma essendo cresciuto in un ambiente in cui una caduta di quindici centimetri voleva generalmente dire la morte anche per l’organismo mesklinita, incredibilmente forte e duro, non gli era facile dominare le sue emozioni istintive. Sul tratto di terreno sottostante il razzo, ancora all’altezza di un centinaio di metri, la neve era scomparsa come per miracolo. All’improvviso la massa scura della vegetazione s’incendiò con un’esplosione violenta di fiamme. Ceneri nerastre si sollevarono dal punto dove il razzo stava per atterrare, mentre il terreno stesso appariva incandescente. Durò solo un istante, poi il cilindro lucente si posò con la leggerezza di una piuma nel centro della radura creata dai suoi getti di fuoco. Alcuni secondi dopo, la serie di scoppi laceranti, che in crescendo avevano superato il rombo fragoroso degli uragani di Mesklin, cessò di colpo. Con una sensazione di dolore quasi fisica, la tensione di Barlennan si rilassò, mentre il mesklinita apriva e chiudeva le pinze per alleviare i crampi. — Adesso vengo fuori con gli apparecchi radio — disse Lackland. Barlennan non se n’era accorto, ma il Volatore non si trovava più nella sala della cupola. — Mack guiderà il trattore fin qui. Puoi vederlo arrivare, mentre m’infilo la corazza. Barlennan vide infatti una delle porte del razzo spalancarsi di scatto e da essa emergere il misterioso veicolo, che si mise subito a strisciare lentamente verso la cupola con quei cingoli ch’era impossibile indovinare da quale forza fossero mossi. 11 trattore era molto grosso, tanto spazioso da contenere parecchi individui della razza del Volatore, a meno che l’interno non fosse in gran parte occupato da congegni meccanici. Come la cupola e il razzo, aveva molte e grandi finestre. Attraverso una di queste, sulla parte anteriore del veicolo, il mesklinita poté vedere la figura corazzata di un altro Volatore, che stava evidentemente manovrando il trattore. Qualunque fosse la forza che lo spingeva, il veicolo non faceva nessun rumore, o almeno non un rumore così forte da poter essere udito oltre il chilometro, distanza che ancora lo separava dalla cupola. Aveva coperto ben poco di quella distanza, quando il sole tramontò, rendendo invisibili i particolari. Esstes, il sole minore, era ancora nel cielo e più luminoso di quanto sia per la Terra la Luna piena, ma gli occhi di Barlennan avevano i loro limiti. Un intenso raggio di luce uscì allora dal trattore lungo la linea di marcia, un raggio di luce che venne a colpire la cupola, ma senza portar vantaggio a Barlennan. Il mesklinita rimase pazientemente in attesa. Capitolo 3 SOSPESO NEL VUOTO L’arrivo del trattore, l’uscita di Lackland dalla porta principale a chiusura stagna e il sorgere del Beine, tutto si svolse praticamente nello stesso istante. Il trattore si fermò a un paio di metri dalla piattaforma su cui Barlennan stava rannicchiato, e ne scese il pilota. I due uomini rimasero qualche istante a parlare, in piedi, vicino al mesklinita. E Barlennan si chiese perché mai i due non ritornassero nell’interno della cupola a coricarsi, visto che erano chiaramente provati dalla forza di gravità di Mesklin; ma il nuovo venuto rifiutò l’invito di Lackland. — Non vorrei sembrarti scortese — disse l’uomo sceso dal trattore — ma Charlie, sinceramente, tu rimarresti su questa spaventosa palla di fango un minuto più di quanto dovresti? — Se è per questo— ribatté Lackland — potrei fare lo stesso lavoro che faccio qui stando su Toorey o su un’astronave in orbita attorno a Mesklin. Ma sono convinto che i contatti diretti siano di maggior utilità. Ho ancora bisogno d’imparare molte cose sulla razza di Barlennan. E poi non mi sembra che gli abbiamo dato tutto l’aiuto che possiamo dargli in cambio di quello che crediamo di poter avere da lui. Sarebbe perciò simpatico scoprire che cosa potremmo ancora fare per loro. Per di più Barlennan si trova in una situazione piuttosto critica, e la presenza di uno di noi qui giù potrebbe giovare notevolmente… a tutti e due… — Non ti seguo. — Barlennan è il comandante di una nave mercantile, una specie di trafficanteesploratore, del tutto indipendente. Adesso si trova in una regione del pianeta evitata dalla sua razza e a lui quasi del tutto sconosciuta. Dovrà per forza svernarci, dato che l’estate, facendo evaporare la calotta polare a nord, scatena qui, nelle regioni equatoriali, bufere di una violenza inimmaginabile, tempeste che lui stesso ammette di non avere mai visto. Se dovesse accadergli qualche cosa, non farti illusioni sulle possibilità di stabilire ulteriori contatti! Non dimenticare poi che Barlennan vive normalmente in un campo gravitazionale che è da duecento a quasi settecento volte superiore a quello della Terra. Non lo seguiremo di certo in quelle regioni per fare la conoscenza della sua famiglia. E ancora, in tutta la sua razza non ci saranno probabilmente più di cento individui come lui, che facciano lo stesso mestiere e abbiano oltretutto il coraggio di allontanarsi di tanto in tanto dal loro ambiente naturale. E di questi cento, quante probabilità abbiamo di conoscerne un altro? Ammesso che questo oceano sia il più battuto dalle loro navi, il braccio più piccolo di esso, di cui quest’insenatura è una diramazione, ha una lunghezza di diecimila chilometri e una larghezza di oltre tremila, con una linea costiera estremamente frastagliata. Quanto poi alla possibilità di scoprire dall’alto una delle loro imbarcazioni… bè, la «Bree» di Barlennan, pur essendo una delle imbarcazioni più grandi del pianeta, non è più lunga di quindici metri e non supera i cinque di larghezza, né emerge più di sei o sette centimetri sul pelo dell’acqua. No, Mack, il nostro incontro con Barlennan rappresenta una delle coincidenze più improbabili che possano verificarsi, e non me ne aspetto davvero un’altra. Resistere a tre gravità per almeno cinque mesi, cioè fino alla primavera dell’emisfero australe, è per me un’impresa che vale la pena di tentare. Però, ovviamente, se vuoi correre il rischio di recuperare apparecchiature per un valore di due miliardi di dollari, facendo ricerche su una striscia di territorio larga millecinquecento chilometri e lunga press’a poco duecentomila… — Capisco il tuo punto di vista — disse l’altro essere umano — ma continuo a essere contento che sia tu, e non io, quello di noi che deve stare qui. D’altra parte, forse, se conoscessi meglio Barlennan… I due uomini si voltarono a guardare la piccola forma, simile a un bruco, adagiata sulla piattaforma che arrivava loro alla cintura. — Barl, spero che vorrai perdonare la mia mancanza di cortesia, per non averti presentato Wade McLellan — disse Lackland. — Wade, questo è Barlennan, Comandante della «Bree», e il miglior marinaio del suo pianeta. — Sono molto lieto di fare la tua conoscenza, Volatore McLellan — disse il mesklinita. — Parli la nostra lingua molto bene — osservò McLellan. — È una fortuna che la tua voce possa emettere tutti i suoni del nostro linguaggio. Noi, spesso, non sappiamo come cavarcela in simili frangenti. — Credo però che anche Charlie abbia imparato un po’«della nostra lingua, seguendoci e ascoltandoci con la radio che ora si trova sulla «Bree». — Oh, molto poco — disse Lackland. — Per quello che ho potuto capire, mi sembra che tu abbia un equipaggio anche troppo disciplinato. Quasi tutta la vostra normale attività si svolge senza bisogno di dare ordini, e non riesco a capire una parola delle conversazioni che spesso hai con alcuni dei tuoi marinai, dopo le quali non succede niente. — Alludi a quando parlo con Dondragmer o con Merkoos, vero? Sono il mio Primo e il mio Secondo gli uomini a cui mi rivolgo più spesso. — Questi sono discorsi che ci portano troppo lontano da quello che adesso ci interessa, e intanto rimane ben poca luce diurna. Mack, so che hai una gran voglia di tornare sul razzo e nello spazio, là dove il peso è come se non esistesse e gli uomini sono sospesi nel vuoto come palloncini. Quando ci sarai, assicurati che le stazioni trasmittenti per ognuna di queste quattro radio siano abbastanza vicine l’una all’altra da potersi registrare a vicenda. Non credo che valga la pena di collegarle una all’altra, ma i nostri amici se ne serviranno per qualche tempo per tenere i contatti tra gruppi separati, e queste radio hanno frequenze diverse. Barl, ho lasciato gli apparecchi presso la porta a chiusura pneumatica. La cosa migliore, almeno per me, sarebbe di mettere te e gli apparecchi sul trattore, portare Mack al razzo e poi andare con tutto quanto fino alla «Bree». Lackland si accinse subito a mettere in esecuzione il suo progetto, che ovviamente era il più pratico. Come risultato, il povero Barlennan fu ridotto in uno stato molto vicino alla follia. La mano corazzata dell’uomo, compiuto un semicerchio nell’aria, afferrò l’esile corpo del mesklinita, e per un terribile istante Barlennan si sentì e si vide sospeso nel vuoto ad almeno un metro di altezza dal suolo, per essere poi deposto sul tetto piatto del trattore. Le sue pinze grattarono disperate la liscia superficie metallica, venendo invano in aiuto alla presa istintiva che la sua dozzina di piedi a ventosa aveva esercitato sulle piastre della corazzatura. I suoi occhi fissarono con irriducibile orrore il vuoto lungo i bordi del tetto a non più di qualche corpo di distanza in ogni direzione. Per alcuni secondi interminabili — forse per un intero minuto — Barlennan non riuscì a ritrovare la voce, e quando alla fine parlò, non poteva più essere udito. Era troppo lontano dal microfono collocato sulla piattaforma perché le sue parole fossero udite. D’altra parte si ricordò, nonostante il terrore da cui era invaso, che il roco ululato d’orrore che era tentato di lanciare sarebbe stato sentito con uguale chiarezza da tutta la sua gente a bordo della «Bree», dotata di un altro apparecchio radio. E in questo caso la «Bree» avrebbe avuto un altro comandante. Il rispetto per il suo coraggio era stato l’unico motivo che aveva indotto l’equipaggio ad avventurarsi nelle regioni tempestose dell’Orlo. Se quel rispetto fosse scomparso, Barlennan sarebbe rimasto senza equipaggio, senza nave, e forse ci avrebbe anche rimesso la vita. Un codardo non era tollerato a bordo di nessuna imbarcazione oceanica; e per quanto la sua casa si trovasse sulla medesima massa continentale, l’idea di percorrere a piedi quasi settantamila chilometri di linea costiera non era nemmeno da prendersi in considerazione. Tutto questo passò per la mente del mesklinita mentre Lackland, raccolte le radio, entrava con McLellan nel veicolo corazzato, sotto Barlennan. Le piastre metalliche vibrarono leggermente quando lo sportello si chiuse, e un istante dopo il veicolo cominciò a muoversi. In quel momento una cosa molto strana accadde al suo passeggero extraterrestre. La paura avrebbe potuto farlo impazzire. La sua condizione era anche peggiore di quella di un essere umano rimasto appeso penzoloni, con una mano sola, al davanzale di una finestra al quarantesimo piano sopra il livello stradale. Eppure Barlennan non impazzì. O per lo meno, non impazzì nel senso generalmente inteso del termine: continuò a ragionare con la consueta lucidità, e nessuno dei suoi amici avrebbe potuto scoprire il minimo cambiamento nella sua personalità. Al massimo, Lackland, se fosse stato un po’«più al corrente della psicologia mesklinita, avrebbe potuto sospettare che il Comandante fosse leggermente brillo. Ma poi anche quella specie di ebbrezza passò e persino la paura cominciò a dileguarsi. Aggrappato sul tetto a quasi sei corpi di altezza dal suolo, ritrovò una certa calma e tranquillità d’animo. Anzi, da lassù lo sguardo poteva spaziare sul mondo circostante, ricavandone una visione molto più comprensiva e generale. Il terreno intorno era come una carta geografica, e fino a quel momento Barlennan non aveva mai considerato una mappa come l’immagine del territorio visto dall’alto. Una sensazione quasi inebriante di trionfo si impadronì di lui, mentre il trattore si avvicinava sempre più al razzo e finalmente si fermava. Il mesklinita agitò le pinze con festosa allegria a McLellan, che usciva dalla macchina corazzata, illuminato dalla luce dei fari, e quando vide che il terrestre rispondeva agitando la mano, ne fu entusiasticamente compiaciuto. Poi il trattore si rimise in moto, piegando a sinistra, e si diresse verso il tratto di spiaggia dove si trovava la «Bree». Mack, ricordandosi che Barlennan si trovava allo scoperto sul tetto, attese che il veicolo si fosse allontanato di quasi due chilometri prima di lanciare il suo razzo nel cielo. La vista dell’astronave che si innalzava lentamente sulla verticale, senza alcun appoggio apparente, fu sul punto di scatenare nel mesklinita l’antico terrore. Stavolta però Barlennan seppe dominare decisamente quella sensazione e si costrinse a guardare la macchina volante fino a quando non sparì nei bagliori del sole al tramonto. Lackland fermò il trattore a un centinaio di metri dalla «Bree», ma anche a quella distanza gli strabiliati marinai sul ponte riuscirono a scorgere il loro Comandante saldamente attaccato sul tetto del veicolo. Sarebbero rimasti meno sconcertati se avessero visto la sua testa innalzata su una picca in mano a Lackland. Persino Dondragmer, il più intelligente e flemmatico dell’equipaggio, restò come paralizzato per qualche minuto. Poi mosse per primi gli occhi, che lanciarono occhiate nostalgiche ai serbatoi di polvere di fuoco e ai «frullini» allineati lungo i bordi dell’imbarcazione. Un sordo brontolio rabbioso cominciò a salire dall’equipaggio quando lo sportello del veicolo si aprì e ne uscì la figura corazzata di Lackland. A causa del loro genere di vita, tra il mercantile e il piratesco, degli uomini erano rimasti soltanto quelli più pronti a battersi al minimo cenno di minaccia, i codardi essendo stati abbandonati e gli individualisti addirittura morti. L’unica cosa che salvò la vita a Lackland fu l’abitudine — quasi un riflesso condizionato — che li trattenne dal fare un balzo di cento metri, che al più debole di loro sarebbe costato uno sforzo muscolare minimo. Invece, strisciando come avevano sempre fatto da quando erano venuti al mondo, sciamarono giù dall’imbarcazione come una cascata di acque rosse e nere e si sparsero sulla spiaggia dirigendosi verso la macchina dei terrestri. Lackland naturalmente li vide arrivare, ma fraintese talmente le loro intenzioni che non si affrettò nemmeno ad arrampicarsi sul tetto del trattore; anzi con tutta calma tolse Barlennan di là e lo depose sul terreno. Quindi, allungato un braccio all’interno del veicolo, ne tirò fuori gli apparecchi radio che aveva promesso e li mise accanto a lui sulla sabbia. A questo punto l’equipaggio si era già accorto che il suo Comandante era vivo e chiaramente illeso. La valanga di meskliniti si arrestò a mezza strada fra l’imbarcazione e il trattore, mentre una cacofonia di voci, varianti dai toni più profondi alle note più acute che una radio potesse riprodurre, rimbombò nei microfoni dello scafandro di Lackland. Barlennan frenò la commozione dei suoi con un sibilo che, passando nei microfoni di Lackland, quasi lo assordò. — I gruppi dei cacciatori sono già pronti? — chiese poi Barlennan, una volta calmato il tumulto. — Non abbiamo ancora mangiato — rispose Merkoos, timidamente — ma tutto il resto, reti e armi, è pronto. — E i viveri? — In un giorno saranno pronti anche quelli. — E Karondrasee, il cuoco, ritornò verso l’imbarcazione senza attendere altri ordini. — Don, Merkoos, prendete ciascuno una di queste radio. Mi avete già visto usare quella che abbiamo a bordo: è sufficiente parlare nelle immediate vicinanze dell’apparecchio. E poi, Don, non intendo più dirigere la spedizione di caccia dalla nave, come avevo deciso prima. Ho scoperto infatti che si possono dominare con lo sguardo grandi estensioni di terreno dal tetto della macchina semovente del Volatore e, con il suo permesso, insieme a lui seguirò da vicino i vostri movimenti. Dondragmer allibì. — Ma, Comandante! Quella macchina spaventerà tutta la selvaggina che si troverà entro il nostro raggio visivo! Quando è in moto la si sente almeno a cento metri di distanza e la si vede da molto più lontano. Senza contare… — Che nessuno si potrà concentrare sulla caccia, con me bene in vista a un’altezza simile sul terreno. È questo che volevi dire? — lo interruppe Barlennan. Le pinze dell’altro mesklinita si mossero silenziosamente in un gesto di conferma, che fu ripetuto più o meno dalla totalità dell’equipaggio. Per un momento Barlennan ebbe la tentazione di mettersi a discutere con i suoi subordinati, ma si rese conto in tempo dell’inutilità di un simile tentativo. — Va bene, Don, non hai torto. Mi manterrò in contatto radio con te e non mi farò vedere. L’equipaggio sciamò di nuovo verso la «Bree», e il suo Comandante si accinse a mettersi in comunicazione con Lackland. Era un po’«preoccupato perché gli ultimi avvenimenti gli avevano fatto venire delle idee nuove, del tutto insolite; le avrebbe discusse, però, quando fosse capitata l’occasione favorevole. Adesso, ciò che gli premeva di più era un’altra passeggiata sul tetto del carro corazzato. Capitolo 4 DI MALE IN PEGGIO La baia sulla cui riva meridionale era stata tirata in secca la «Bree» era un piccolo estuario lungo un trentacinque chilometri e non più largo, alla foce, di tre e mezzo. Si apriva sulla costa meridionale di un golfo più ampio, dalla conformazione più o meno simile, lungo circa quattrocento chilometri, che a sua volta era solo una diramazione di un grande mare che si estendeva indefinitamente entro l’emisfero boreale, dove si confondeva con i ghiacci eterni della calotta polare. Queste tre masse d’acqua erano genericamente disposte da est a ovest ed erano separate, sulle coste settentrionali, da una serie di penisole relativamente strette. La posizione della «Bree» era stata scelta meglio di quanto Barlennan stesso credesse, perché due penisole la proteggevano dalle bufere provenienti dal nord. Una trentina di chilometri più a ovest, tuttavia, la protezione della più vicina di queste punte veniva a mancare, e Barlennan e Lackland poterono apprezzare che vantaggio avesse rappresentato per loro anche quella stretta lingua di terra. Il Comandante, ancora una volta, era stato sistemato sul tetto del carro corazzato, ma ora aveva una radio accanto a sé. Alla loro destra c’era il mare, che si estendeva fino al lontano orizzonte, al di là della punta di terra che proteggeva la baia. Alle loro spalle la spiaggia era come quella su cui era in secca la «Bree», una striscia sabbiosa in lieve pendenza, tutta punteggiata dei ciuffi della scura vegetazione fibrosa che copriva tanta parte della superficie di Mesklin. Davanti a loro, però, la vegetazione scompariva quasi del tutto. Qui la pendenza era minima e la cintura sabbiosa diventava più larga a misura che l’occhio si spingeva più lontano. Benché mancassero persino le piante dalle radici più profonde, quella grande distesa di sabbia non appariva nuda, perché sulle sue ondulazioni parallele erano sparsi i relitti nerastri e immobili del recente uragano. Alcuni erano enormi ammassi di alghe strettamente intrecciate, o comunque di vegetali molto simili alle alghe; altri erano i corpi di animali marini, alcuni ancora più grossi degli ammassi d’alghe. Lackland rimase colpito, non tanto dalle dimensioni degli animali — dato che, in vita, erano presumibilmente sostenuti dal liquido in cui galleggiavano — ma per la distanza a cui si trovavano dall’acqua. Una massa mostruosa copriva un buon tratto di spiaggia quasi a un chilometro dal limite delle acque. Il terrestre cominciò a capire che cosa potevano fare i venti di Mesklin anche in zone di forte gravità, quando disponevano di cento chilometri di spazio in mare aperto per accumulare ondate capaci di spazzare via ogni cosa. Il carro corazzato si inoltrò faticosamente sempre più lontano dal mare, avvicinandosi alla mole mostruosa scaraventata nell’entroterra dal recente uragano. Lackland voleva osservarla da vicino, dato che praticamente non aveva ancora visto alcun esemplare della fauna mesklinita. E anche a Barlennan, che pure conosceva molti dei mostri che popolavano i mari su cui aveva navigato per tutta la vita, quell’enorme struttura non era familiare. La forma dell’animale non risultò poi troppo sorprendente, né per l’uno né per l’altro. Avrebbe potuto essere una balena insolitamente aerodinamica o un rettile marino straordinariamente tozzo. Al terrestre ricordava lo Zeuglodonte che aveva infestato i mari del suo pianeta una trentina di milioni di anni prima, Tuttavia, nessuna creatura della Terra di cui fossero stati ritrovati i fossili si era mai avvicinata alle dimensioni di questa. Giaceva per una lunghezza di almeno duecento metri sul terreno ancora sabbioso; in vita, il suo corpo doveva essere cilindrico, con un diametro di oltre venti metri. Adesso, fuori dal liquido in cui era vissuto, ricordava un modello di cera che fosse stato lasciato troppo a lungo al sole. Benché le sue carni dovessero avere una densità inferiore della metà a quella degli esemplari terrestri, il suo peso risultava ancora sbalorditivo, quando Lackland si provò a calcolarlo, senza contare gli effetti di una gravità tre volte maggiore che sulla Terra. — E dimmi, per favore, che cosa fai quando incontri un bestione come questo in navigazione? — chiese a Barlennan. — Non ne ho la più pallida idea — rispose il mesklinita, freddamente. — Ho già visto mostri del genere, ma molto di rado. Di solito restano in mari più profondi e comunque in quelli permanenti. Ne ho visto uno in superficie una volta sola, ed era almeno quattro volte più grande di questo. Non so che cosa mangino, ma evidentemente trovano il nutrimento negli abissi dove vivono. Non ho mai sentito di una nave che sia stata attaccata da questi mostri. — Credo bene! — disse Lackland. — Penso che sia difficile, in un caso simile, che ci siano dei superstiti. Se questa creatura, per nutrirsi, usa il sistema di certe balene del mio pianeta, è capacissima d’inghiottire una delle vostre imbarcazioni senza nemmeno accorgersene… Diamo un’occhiata alla bocca: vedremo subito. Lackland fece partire immediatamente il trattore corazzato e lo guidò presso quella che aveva tutta l’aria di essere l’estremità della testa. C’era una bocca e anche una specie di cranio, ma questo era stranamente schiacciato a causa del suo stesso peso. Tuttavia, dai denti rimasti tra le fauci, Lackland capi che il mostro doveva essere carnivoro. — Anche se tu lo incontrassi in alto mare, Barl — disse alla fine Lackland — non correresti troppi rischi. Questo bestione non si sognerebbe neanche di attaccarti. Una delle tue navi non basterebbe nemmeno a stuzzicargli l’appetito: non credo che si accorgerebbe di qualcosa che non fosse grande almeno cento volte la «Bree». A proposito, che cosa intendi quando parli di mari «permanenti»? — Mi riferisco a quegli oceani che si mantengono ancora tali poco prima che comincino le bufere invernali. Il livello del mare raggiunge la massima altezza in primavera, alla fine delle tempeste che hanno colmato i letti oceanici nel corso dell’inverno. Durante il resto dell’anno i mari diminuiscono. Qui sull’Orlo, dove la linea costiera è a picco sul mare, non si nota una grande differenza, ma là dove il peso e molto più alto la linea costiera può spostarsi da trecento a tremila chilometri, tra la primavera e l’autunno. Lackland fece un fischio sommesso: — In altri termini — disse, come tra sé — gli oceani di questo pianeta evaporano ininterrottamente per più di quattro dei miei anni, riversando metano ghiacciato sulla calotta polare nord, per poi riprenderselo nei cinque mesi che l’emisfero settentrionale impiega a passare dalla primavera all’autunno. Adesso capisco! — Poi, tornando alla situazione del momento: —Barl, ora esco da questa scatola per sardine. Ho desiderato prelevare campioni di tessuto animale fin da quando ho scoperto che su Mesklin esisteva la vita. Credi che la carne di questa bestiaccia si sia guastata nel tempo trascorso dalla sua morte? — Per noi sarebbe perfettamente mangiabile, anche se, da quello che mi hai detto, per voi Volatori sarebbe assolutamente indigesta. La carne in genere diventa tossica dopo due o trecento giorni, a meno che non sia seccata o conservata in qualche altro modo, e durante questo periodo il suo sapore cambia continuamente. Posso assaggiare un boccone di questa, se vuoi. Senza attendere risposta e senza nemmeno dare un’occhiata colpevole intorno per accertarsi che qualcuno dell’equipaggio non si fosse spinto fin là, Barlennan si lanciò dal tetto del trattore, atterrando presso l’immensa mole dove aspettò che Lackland, aperto lo sportello, uscisse dal veicolo. Il trattore non aveva una chiusura stagna, ma Lackland indossava lo scafandro a pressione e quindi poteva lasciare che l’atmosfera di Mesklin entrasse liberamente nel veicolo, una volta che il suo casco fosse ermeticamente chiuso. Una leggera scia di candidi cristalli lo seguì turbinando: erano il ghiaccio e l’anidride carbonica gelata dell’atmosfera di tipo terrestre dell’interno, venuti a contatto con la bassissima temperatura di Mesklin. Barlennan non avvertì nessuno strano odore, ma provò una sensazione di bruciore e di arsura nei pori respiratori, quando un lieve sbuffo di ossigeno lo raggiunse, costringendolo a scansarsi con un salto. Lackland si scusò. — Dovevo stare più attento io — disse il mesklinita. — Ho provato la stessa sensazione una volta, abbandonando la Collina dove abiti, e ho presente tutto quello che mi hai detto allora sulla differenza tra l’ossigeno che respiri tu e il nostro idrogeno… ricordi? È stato quando stavo imparando le prime parole della tua lingua. Poi Barlennan si accinse a prelevare il primo campione di carne. Con quattro coppie di pinze si mise a recidere una porzione della pelle e dei tessuti sottostanti, quindi portò il pezzo alla bocca. Per alcuni istanti masticò meditabondo. — Nient’affatto cattiva — osservò finalmente. — Se non hai bisogno di tutta la bestia per i tuoi esperimenti, potrebbe essere una buona idea far venire qui i cacciatori. Avrebbero tutto il tempo di raccogliere questa carne prima che ritorni la bufera. — Buona idea — borbottò Lackland, tutto assorto nel risolvere il problema di come piantare una lama nella massa che aveva davanti. Aveva già intuito che i tessuti viventi, su un pianeta come quello, dovevano essere estremamente duri e coriacei. Ma quella carne aveva la compattezza e la solidità di un tronco di tek, e malgrado l’affilatissima lama del suo bisturi che tra l’altro era fatta di una lega speciale, dovette rinunciare a tagliarne via un pezzo intero e rassegnarsi a grattarne via solo dei frammenti. Quando ne ebbe raccolto un quantitativo sufficiente, li chiuse in una scatoletta per campioni. — Possibile che in tutto questo bestione non ci sia un punto più tenero? — chiese alla fine a Barlennan, che lo stava guardando con il massimo interesse. — Avrò bisogno delle scavatrici meccaniche, se vorrò prelevare campioni in quantità soddisfacente per i ragazzi che mi aspettano su Toorey. — Alcune parti dell’interno della bocca dovrebbero essere meno dure — disse il mesklinita. — Ma, se credi, posso strappartene io alcune porzioni, sempre che non sia indispensabile per te prelevarle con strumenti metallici. — No, non credo che siano necessari. E se i cari biologi non troveranno i miei campioni di loro gusto potranno venire personalmente a prenderseli. Barlennan si mise all’opera, e in poco tempo le scatolette furono piene. Quando ebbero finito, Lackland lanciò un’occhiata avida alla specie di colonnato che erano i denti del mostro: — Immagino — disse — che ci vorrebbe una carica di gelatina per estrarre uno di questi denti. — Che cos’è la gelatina? — Un esplosivo, cioè una sostanza che si trasforma rapidamente in gas, con un gran fragore ed effetti dirompenti. Usiamo la gelatina per lavori di scavo, per demolire edifici e pezzi di montagna e alle volte anche per combattere. — Questo rumore è per caso quello di un’esplosione? Per un istante, Lackland rimase letteralmente senza parole. Un boato di notevole intensità, come quello che aveva appena sentito, su di un pianeta i cui nativi ignoravano qualunque forma di esplosivo e sul quale non era presente nessun altro essere umano, era sconcertante, tanto più per la strana coincidenza con cui s’era verificato. Completamente sbalordito, inoltre, Lackland non aveva potuto farsi una chiara idea dell’entità e della distanza dello scoppio, avendolo sentito solo attraverso la radio di Barlennan e i propri auricolari, contemporaneamente. Ma dopo due o tre secondi un sospetto tutt’altro che piacevole gli attraversò la mente. — Ha tutta l’aria di esserlo — rispose, sia pure in ritardo, e subito si mise ad arrancare intorno alla testa del colosso per riuscire a vedere il trattore, là dove si era fermato. Barlennan lo seguì col suo metodo di locomozione più naturale: strisciando. Quando vide che il trattore si trovava dove lo aveva lasciato, Lackland provò un senso di profondo sollievo, che però si trasformò presto in costernazione. Arrivato infatti allo sportello del veicolo corazzato, si accorse che il pavimento era ridotto a veri e propri trucioli di metallo sottile, alcuni ancora attaccati alla base delle pareti, altri mescolati ai congegni di guida e agli accessori interni. Il motore, che si trovava originariamente sotto il pavimento, era quasi del tutto scoperto. All’esterrefatto terrestre bastò una sola occhiata per costatare che il veicolo era irrimediabilmente distrutto. Barlennan seguiva la scena con vivo interesse. — Vedo che trasportavi delle sostanze esplosive nel tuo trattore — disse. — Perché non te ne sei servito per estrarre il materiale che ti occorreva dalla carcassa del mostro? E che cosa lo ha messo in azione mentre si trovava ancora a bordo del veicolo? — Barl, hai la capacità di fare le domande più difficili nel momento meno indicato — rispose Lackland. — A ogni modo, alla prima rispondo che non trasportavo esplosivi e alla seconda che non ne so più di quanto ne sappia tu. — Ma deve ben essere stato qualcosa che tenevi a bordo del trattore — insistette il mesklinita. — Posso vedere anch’io che la causa dello scoppio si trovava sotto il pavimento e ha tentato di uscire a forza. E comunque su Mesklin non abbiamo cose che agiscano così. — Per quel che so, non c’era niente sotto il pavimento che potesse scoppiare. Motori elettrici e relative batterie non sono esplosivi. Il guaio è che ora posso considerarmi un uomo morto, Barl. — Perché? — Perché ci troviamo a ventotto chilometri dalle mie scorte di viveri, non contando quel poco che ho sul trattore. Ma questo adesso è fuori uso; e se ci sarà mai un essere umano capace di percorrere a piedi ventotto chilometri, in uno scafandro corazzato con una pressione di otto atmosfere e sottoposto a una forza di tre gravità, quell’uomo non sono io. Con il sistema a branchie dello scafandro e sufficiente luce solare potrei anche continuare ad avere aria respirabile per un tempo indefinito, ma morirei di fame molto prima di essere arrivato alla cupola. — Non puoi chiamare per radio i tuoi amici che si trovano sulla luna più veloce e pregarli che ti mandino un razzo per portarti alla cupola? — Sì, potrei farlo. E probabilmente sono già informati della situazione, se qualcuno si trova nella sala delle radiocomunicazioni e sta ascoltando il nostro colloquio. Il guaio è che se ricorro a questo genere di aiuto, il professor Rosten vorrà farmi tornare su Toorey per l’inverno. Ho dovuto sudare sette camicie per convincerlo a lasciarmi su Mesklin. Dovrò dirgli per forza del trattore, ma voglio farlo dalla cupola, dopo esserci tornato senza il suo aiuto. Qui intorno però non c’è energia sufficiente a farmi tornare. E anche ammesso che potessi infilare una maggiore quantità di cibo nelle borse del mio scafandro senza lasciarvi penetrare l’aria di questo pianeta, tu non potresti entrare nella mia stazione a cupola, per prendermi i viveri. — Lasciami chiamare il mio equipaggio, in ogni caso — disse Barlennan. — I miei marinai potranno utilizzare il cibo che si trova qui, o per lo meno tutto quello che riusciranno a trasportare sulla nave. E poi, mi è venuta un’idea. — Un’idea che potrebbe risolvere il mio problema personale? — Direi di sì. — Barlennan avrebbe sorriso, se la sua bocca non fosse stata costituita da due mandibole rigidissime, più dure del ferro. — Prova a salire sopra di me. Per alcuni secondi Lackland rimase immobile, allibito dalla proposta. Dopo tutto Barlennan assomigliava, più che a qualunque altra forma del regno animale, a un gigantesco bruco, e quando un uomo mette il piede su un bruco… Ma poi Lackland ci ripensò e sorrise. Il mesklinita, strisciando, si era intanto spinto fino ai suoi piedi. Senza ulteriori esitazioni, Lackland mosse una gamba per montargli sopra. Ci fu solo una difficoltà. Lackland pesava circa settantacinque chili, e altrettanto il suo scafandro, un miracolo della tecnica più avanzata. Di conseguenza, sull’equatore di Mesklin, con una gravità tripla di quella terrestre, uomo e scafandro assommavano a circa quattro quintali e mezzo. Lackland non avrebbe potuto muovere un passo senza l’aiuto di un ingegnoso strumento automatico applicato alle gambe. Ma il suo peso, comunque, superava di un solo quintale quello di Barlennan nelle regioni polari del pianeta. Il mesklinita non aveva quindi difficoltà a sostenerlo sulla schiena. Fu piuttosto un semplice problema di geometria a far fallire il tentativo di Lackland. Il corpo di Barlennan era paragonabile, genericamente, a un cilindro lungo quarantacinque centimetri con un diametro di cinque al massimo: stare in equilibrio su quel precario sostegno si rivelò un’impresa impossibile per il terrestre in scafandro. Però Lackland trovò ugualmente la soluzione giusta. Alcune delle piastre metalliche della parte inferiore del trattore erano state divette dall’esplosione, e Barlennan, dietro indicazione dell’uomo, riuscì a strapparne una. Era larga una sessantina di centimetri e lunga un paio di metri e, sollevata a un’estremità dalle pinze possenti del mesklinita, diventava una specie di slitta abbastanza comoda. A questo punto ci fu un intoppo. Il peso di Barlennan in quella regione del pianeta non superava il chilo e duecento grammi: in altre parole il mesklinita non possedeva la forza necessaria per rimorchiare la slitta improvvisata, senza contare che la pianta più vicina da impiegare come ancora si trovava a mezzo chilometro circa di distanza. Lackland fu lieto che una faccia rossa per la vergogna non avesse alcun significato per gli indigeni di quel pianeta. Lui e Barlennan avevano lavorato ininterrottamente e inutilmente per un giorno e una notte, dato che il sole minore e le due lune avevano fornito luce a sufficienza, ora che le nuvole della tempesta si erano dissolte. Capitolo 5 UNA NUOVA MAPPA DI MESKLIN L’arrivo dell’equipaggio, chiamato per radio da Barlennan, risolse il problema in breve tempo. Furono srotolate le cime che normalmente erano collegate alle reti da caccia e furono annodate insieme in modo da ottenere una lunghezza di corda sufficiente per raggiungere con un capo le piante più vicine a cui ancorarsi. Dopo soli quattro giorni i ventun meskliniti della spedizione, trainando un lungo convoglio di slitte fatte con le lastre metalliche del trattore, su cui aveva preso posto Lackland ed era stato sistemato un carico di carne, si misero in cammino per raggiungere la «Bree». Viaggiando alla media di circa un chilometro e seicento metri all’ora, arrivarono al mare in sessantun giorni. Altri due giorni di lavoro, con la collaborazione di un maggior numero di marinai, permisero a Lackland di superare la zona di fitta vegetazione che divideva la «Bree» dalla cupola. Finalmente il terrestre fu lasciato sano e salvo davanti alla porta a chiusura stagna. Lackland mangiò prima di affrontare il problema di comunicare ufficialmente quanto era successo al trattore. Avrebbe voluto essere in grado di fare un rapporto più particolareggiato: gli sembrava che sarebbe stato più corretto spiegare esattamente l’entità del disastro e i danni riportati dal veicolo. Aveva appena premuto il pulsante sull’apparecchio radio collegato col satellite, quando la faccia del professor Rosten apparve sullo schermo. — Professore, ho avuto guai col trattore. — Sento. Cause elettriche o meccaniche? — Meccaniche, principalmente, anche se gli impianti elettrici hanno fatto la loro parte. Ho paura che ci si dovrà rassegnare alla perdita totale del carro corazzato. Sono anche stato costretto ad abbandonare i rottami a ventotto chilometri da qui, in direzione ovest, presso la spiaggia. — Che bella notizia! Questo pianeta costa una quantità incredibile di quattrini, per un verso o per l’altro. Insomma, cos’è successo esattamente? E come hai fatto a tornare nella cupola? — Barlennan e il suo equipaggio mi hanno rimorchiato fin qua. Circa il trattore ho una teoria. Penso che l’intercapedine sotto il pavimento tra la cabina di guida e il compartimento motore non fosse a tenuta stagna. Quando sono sceso per fare certe indagini, l’atmosfera di Mesklin, che è composta prevalentemente d’idrogeno molto compresso, dev’essere filtrata nell’interno, mescolandosi con l’aria normale sotto il pavimento e formando un composto esplosivo. Lo stesso fenomeno avrebbe potuto verificarsi in precedenza nella cabina di guida, ma praticamente tutto l’ossigeno ne era già sfuggito nel momento in cui ho aperto il portello, così che in cabina ne era rimasta una quantità minima, sotto il punto critico, insufficiente a produrre uno scoppio. — Uhm! — Il capo della spedizione terrestre di recupero pareva di malumore. — Avevi proprio bisogno di scendere dal trattore? In quel momento Lackland fu contento che Rosten fosse un biochimico. — Non avevo ordini precisi — rispose — ma volevo prendere, e li ho presi, alcuni campioni di tessuto d’una specie di balena lunga duecento metri, sbattuta dalla tempesta sulla terraferma. Ho pensato che a qualcuno poteva far piacere… — E li hai portati nella cupola? — interruppe Rosten. — Si. Quando venite a esaminarli? Vorrei anche sapere, professore, se disponiamo di un altro trattore e se potreste farmelo avere. — Sì, l’abbiamo. Vedrò se sarà il caso di mandartelo alla fine dell’inverno. Per adesso sarai più al sicuro nella cupola. In quale soluzione hai messo i campioni di tessuto per conservarli meglio? — Nessuna soluzione particolare: soltanto idrogeno, l’aria locale. Condivido la vostra teoria, e temevo che i nostri normali liquidi protettivi potessero danneggiarli. Dovreste venire a prenderli al più presto, professore. Barlennan dice che la carne diventa velenosa dopo qualche centinaio di giorni, il che mi fa pensare che anche su questo pianeta esistano microrganismi. — Sarebbe strano se non ci fossero. Non muoverti, arriverò fra un paio d’ore. Rosten tolse la comunicazione senza ulteriori commenti in merito al trattore distrutto, e Lackland si sentì più tranquillo. Infine decise di andare a coricarsi, dato che non dormiva da quasi ventiquattr’ore. Fu destato dal rombo del razzo. Rosten era venuto personalmente, ma la cosa non era poi così sorprendente. Il professore non si tolse nemmeno lo scafandro. Prese le bottiglie che Lackland aveva lasciato nella camera a vuoto d’aria, per ridurre al minimo le probabilità di contaminazione da ossigeno, lanciò un’occhiata a Lackland e, rendendosi conto di quanto fosse esaurito, gli ordinò con voce burbera di tornarsene a letto. — Questa roba vale probabilmente il trattore perduto — disse in tono brusco. — Ora cerca di dormire un poco. Presto avrai altri problemi da risolvere. Ti darò istruzioni più tardi, quando sarai in grado di ricordare le mie parole. La porta della camera a vuoto pneumatico si richiuse alle sue spalle. Lackland non ricordò affatto le parole di commiato di Rosten, ma ci pensarono altri a ripetergliele, molte ore più tardi, dopo una lunga dormita e un buon pasto. — L’inverno durerà ancora più di tre mesi e mezzo, e Barlennan, ormai, non può sperare di riprendere il mare prima che finisca — cominciò il segretario di Rosten, senza tanti preamboli. — Quassù abbiamo un’enorme quantità di telefoto che non sono ancora state elaborate in modo da formare una vera e propria mappa. Abbiamo soltanto messo insieme abbastanza materiale per farci un’idea generica della zona. Non siamo però riusciti a ricavarne una carta geografica, per via di certe difficoltà d’interpretazione dei luoghi. Il tuo lavoro, per il resto dell’inverno, sarà di tuffarti in questo mare di telefoto insieme con il tuo amico Barlennan, trasformare il tutto in una mappa utilizzabile e decidere la rotta più breve che porti la nave mesklinita là dove si trovano i materiali che intendiamo recuperare. — Guarda che Barlennan non ha nessuna fretta. Per lui, questo non è solo un viaggio di esplorazione, ma anche di commercio. E il fatto che ci abbia incontrato per lui non rappresenta altro che uno dei tanti incidenti o incontri prevedibili durante un viaggio. Inoltre, tutto quello che finora siamo stati in grado di offrirgli in cambio dell’aiuto che ci ha dato, è stata una serie interminabile di previsioni del tempo per facilitargli il suo lavoro normale. — Capisco. Ma in fondo è proprio per questo che sei stato mandato lì con la cupola. La tua, tutto sommato, potrebbe essere definita una missione diplomatica. Nessuno si aspetta miracoli, e oltre tutto vogliamo che Barlennan resti in buoni rapporti di amicizia con noi. Però tieni presente che ci sono due miliardi di dollari di attrezzature speciali su quel razzo che è rimasto intrappolato al polo, per non parlare poi dei dati e delle registrazioni scientifiche letteralmente senza prezzo… — Lo so, lo so, e farò del mio meglio — lo interruppe Lackland. — Ma bisogna prevedere anche l’eventualità che non riesca mai a far capire l’importanza della cosa a una mentalità indigena… e con questo non intendo sottovalutare l’intelligenza di Barlennan: il fatto è che gli mancano tutte le cognizioni terrestri necessarie a capire il nostro punto di vista. Comunque, osservate attentamente la situazione meteorologica, lassù, in modo da segnalarmi in tempo tutte le bonacce che sopraggiungessero in questo periodo di tempeste. Barlennan potrà così venire qui da me a studiare le foto ogni volta che il tempo lo permetterà. — D’accordo. Ma ripeto: fà tutto ciò che puoi con quelle fotografie. Sai che cosa significano per noi! Con quelle dovremmo poter imparare sui campi gravitazionali più cose di chiunque altro, da Einstein in poi. La comunicazione venne tolta, e l’attività invernale ebbe inizio. Il razzo radiocomandato per le ricerche scientifiche fatto scendere presso il polo sud di Mesklin, che non era più stato in grado di decollare dopo avere presumibilmente registrato tutti i dati raccolti, già da molto tempo era stato identificato e localizzato grazie alle sue trasmittenti telemetriche, o radiolocalizzatori. Ma ben altre e più gravi erano le difficoltà di stabilire una rotta oceanica o un itinerario via terra che portasse la, spedizione dritta al razzo, partendo dalla zona dov’era la «Bree». La traversata oceanica non costituiva il problema più complesso, poiché navigando per sessanta o settantamila chilometri lungo la linea costiera, per metà circa del percorso in acque già note all’equipaggio della «Bree», la spedizione di recupero sarebbe arrivata al punto più vicino al relitto raggiungibile attraverso quella particolare catena di oceani. Punto che si trovava a una distanza di circa seimila chilometri dal relitto stesso. Il guaio era che in quel tratto di costa non esistevano corsi fluviali abbastanza larghi da abbreviare sensibilmente il percorso sulla terraferma. Per la verità c’era un ampio fiume lungo il quale la «Bree» avrebbe potuto facilmente navigare, ma passava a un’ottantina di chilometri dal punto desiderato e si gettava in un oceano che non comunicava, a quanto sembrava, con quello in cui si trovava la «Bree». Quest’ultimo era formato da una lunga, stretta e irregolarissima catena di mari che, partendo da una regione a nord dell’equatore (grosso modo dalla zona in cui era situata la stazione di Lackland) e passando lungo il percorso molto vicino al polo sud — vicino s’intende, relativamente alle distanze di Mesklin — raggiungeva di nuovo l’equatore, ma sull’altro lato del pianeta. Il primo oceano, invece, quello dove si gettava il fiume che scorreva nei pressi del razzo immobilizzato, era più ampio e dalla configurazione generale più regolare. Partendo dalle estreme regioni meridionali, dove sfociava il fiume, si spingeva fin oltre l’equatore, confondendosi alla fine con i ghiacci della calotta polare nord. Si trovava a est rispetto alla prima catena oceanica, da cui sembrava essere diviso soltanto da un angusto istmo che si spingeva dal polo all’equatore, angusto, naturalmente, in rapporto all’ordine di grandezze esistenti sul pianeta. A mano a mano che le foto venivano collegate una all’altra, Lackland scoprì che l’istmo variava da tremilacinquecento a circa quindicimila chilometri in larghezza. — Quello che ci servirebbe, Barl, è un passaggio da uno di questi mari a uno dell’altro gruppo — osservò Lackland un giorno. Il mesklinita, comodamente disteso sul davanzale fuori della finestra, fece un gesto di assenso. Il culmine dell’inverno era ormai passato, e il sole più grande si faceva sempre più opaco, mentre si allontanava lungo un arco nel cielo, verso il nord. — Sei proprio certo che la tua gente non ne conosca nessuno? Dopo tutto, quasi tutte queste fotografie sono state prese in autunno, e tu mi hai detto che il livello dell’oceano è molto più alto in primavera. — Non ne conosciamo nessuno, in nessuna stagione — rispose il Comandante mesklinita. — Sappiamo qualcosa, ma non molto, dell’oceano di cui parli: ci sono e ci sono sempre state troppe e diverse nazioni sulla terraferma che divide i due oceani perché fosse possibile stabilire contatti regolari e frequenti. Una singola carovana dovrebbe restare in viaggio almeno due anni, e normalmente le carovane non si spingono mai tanto lontano. Le merci passano attraverso molte mani durante viaggi così lunghi, e non è facile conoscere la loro provenienza quando finalmente arrivano ai nostri mercanti nei porti occidentali dell’istmo. Se esiste un passaggio abbastanza agevole per la nostra spedizione, dovrebbe trovarsi qui, presso l’Orlo, dove le terre sono quasi del tutto inesplorate. La mappa che stiamo tentando di fare insieme non arriva ancora tanto lontano, anche se è già evidente che in autunno non c’è alcun passaggio a sud di questa zona. Può darsi però che questa costa prosegua oltre l’Orlo fino all’altro mare: noi l’abbiamo seguita in direzione est per molte migliaia di chilometri, ma non sappiamo fin dove si spinga in realtà. — Se ricordo bene, un tremila chilometri al di là della penisola esterna la costa piega a nord. Ma, Barl, questa è una rilevazione fatta durante l’autunno. Comincio a credere che sarà un compito molto faticoso preparare una mappa che sia utilizzabile. Il tuo mondo ha una configurazione troppo mutevole e complicata. Sono quasi tentato di aspettare l’autunno, in modo da poter usare la prima mappa fatta dai miei compagni, ma l’autunno è lontano ancora quattro dei miei anni, e io non posso restare qui tanto tempo. — Potresti ritornare sul tuo pianeta a riposare in attesa del periodo prescelto… sebbene la prospettiva di vederti partire mi addolori. — Ho paura che sarebbe un viaggio un po’«troppo lungo. — Quanto? — Mmm… credo che le tue unità di misura non siano sufficienti, se voglio darti un’idea della distanza. Vediamo. Un raggio di luce viaggia intorno all’Orlo di Mesklin in… sì… quattro quinti di secondo. — Dette la dimostrazione di questo intervallo di tempo con il suo cronometro, mentre Barlennan lo seguiva con il massimo interesse. — Quello stesso raggio di luce impiegherebbe un po’«più di dieci dei miei anni, cioè due anni e un quarto dei tuoi, per arrivare da Mesklin al mio pianeta. — Allora il tuo mondo è troppo lontano per essere visibile? Non mi avevi mai spiegato queste cose, prima! — I nostri limitati mezzi d’espressione non me lo permettevano. Sì, il mio mondo non è visibile, ma potrò farti vedere il mio sole quando l’inverno sarà quasi alla fine, e noi ci saremo spostati sul lato destro del tuo sole. Lackland aveva posato la foto che aveva in mano e sembrava immerso in profonde riflessioni. Quasi tutto il pavimento della sala era cosparso di fotografie disposte come i pezzi di un gioco di pazienza, di un puzzle. Le zone che Barlennan conosceva meglio erano già tratteggiate molto chiaramente, ma c’era ancora un’enorme estensione di spazio da coprire prima di poter includere la regione occupata dalla cupola. Lackland era molto preoccupato per le difficoltà che incontrava nel mettere insieme le foto. Se si fosse trattato di un mondo sferico o quasi sferico, come la Terra o Marte, avrebbe potuto apportare con estrema facilità le debite correzioni alle proiezioni cartografiche della mappa più piccola che veniva facendo e che ricopriva un tavolo posto in un angolo della sala; ma Mesklin non aveva una forma nemmeno approssimativamente sferica. Come Lackland aveva potuto costatare già da tempo, le proporzioni della «Coppa» sulla «Bree» — l’equivalente di un mappamondo terrestre — erano abbastanza esatte. Aveva un diametro di circa quindici centimetri e uno spessore di quattro, e la sua curvatura non era affatto uniforme. Oltre alla difficoltà di collegare una all’altra le varie foto, c’era il problema che gran parte della superficie del pianeta era relativamente pianeggiante, senza vere e proprie caratteristiche di rilievi orografici. E anche dove esistevano montagne e vallate, le varie ombreggiature delle fotografie scattate in zone adiacenti ma in tempi diversi rendevano particolarmente ardui i confronti. In più, il fatto che il sole più brillante si spostasse nel cielo da un orizzonte all’altro in meno di nove minuti aveva gravemente sconvolto i normali metodi di ripresa fotografica: inquadrature di una stessa zona, prese di seguito, ricevevano la luce da direzioni opposte. — Non concluderemo mai niente, se andiamo avanti così, Barl — disse alla fine Lackland con voce stanca. — Valeva la pena di tentare soltanto se fosse esistita la possibilità di trovare delle scorciatoie, ma tu dici che non ce ne sono. Tu sei un navigatore, non un capo di carovana: quei seimila chilometri di terraferma, proprio in una zona dove l’attrazione della forza di gravità è maggiore, finiranno per bloccarci. — La scienza che ti permette di volare non è capace di cambiare le leggi del peso? — Per niente — rispose Lackland con un sorriso. — Gli strumenti che si trovano sul razzo rimasto inchiodato vicino al polo sud dovrebbero avere registrato dati che con il tempo potrebbero insegnarci a risolvere proprio questo problema. È stata una delle ragioni per cui abbiamo mandato il razzo: ai poli del tuo mondo, Barl, esiste la forza di attrazione gravitazionale più terrificante che in ogni altro punto dell’Universo a noi noto. Ci sono molti altri mondi ancor più massicci di questo pianeta, e più vicini al nostro, ma non ruotano su se stessi alla velocità di Mesklin, dato che sono troppo simili, nella forma, alla sfera quasi perfetta. Avevamo bisogno di conoscere i dati comparativi di quell’inverosimile campo gravitazionale e quindi di fare il maggior numero possibile di rilevazioni e misurazioni. E poiché il valore degli strumenti appositamente costruiti e installati su quel razzo è tanto alto che non può essere espresso con numeri che tu e io conosciamo, quando il razzo non ha risposto al radiocomando di decollo, i governi di dieci pianeti sono entrati in agitazione. Noi «dobbiamo» assolutamente entrare in possesso di quei dati, anche a costo di scavare un canale che permetta alla «Bree» di passare nell’altro oceano. — Ma che specie di strumenti sono quelli che si trovano sul razzo? — chiese Barlennan. Ma si pentì della domanda quasi nello stesso istante: il Volatore avrebbe potuto insospettirsi di quella curiosità così specifica e finire per indovinare le vere intenzioni del Comandante. Lackland invece sembrò non trovarci niente di strano e rispose con naturalezza: — Non posso spiegartelo, Barl: ti manca la preparazione scientifica necessaria a comprendere il vero significato di termini come «elettrone», «neutrino», «magnetismo» e «quantum». Il meccanismo di propulsione del razzo potrebbe riuscirti un po’«più comprensibile, sebbene abbia i miei dubbi… Nonostante l’evidente mancanza di diffidenza in Lackland, Barlennan decise di non insistere troppo nelle domande. — Non sarà il caso — disse — di cercare le foto che mostrano la costa e le regioni interne a est del punto in cui ci troviamo? — Sì, resta ancora qualche probabilità che gli oceani si congiungano — disse il terrestre. — Non posso infatti pretendere di ricordare a memoria tutta quella regione. Forse all’estremo margine della calotta polare… Quali sono le punte massime di freddo che potete sopportare? — Noi soffriamo, quando il mare gela, ma possiamo resistere… sempre che il freddo non aumenti oltre quel limite. Perché? — È possibile che dobbiate sfiorare i margini della calotta polare artica. Ma la cosa è ancora da dimostrare. — Lackland si mise a frugare nel pacco di fotografie, che superava di un bel po’«l’altezza di Barlennan, e alla fine tirò fuori un foglio sottile. — Ecco, questa foto è stata presa dall’orlo interno dell’anello che circonda il pianeta, a un’altezza di oltre mille chilometri, usando un teleobiettivo e calcolando una triangolazione molto stretta. Puoi vedere la costa principale e la grande baia, e qui, sul suo lato meridionale, la baia minore con la piccola insenatura dove la «Bree» si trova in secca. Questa foto è stata scattata prima che si cominciasse a costruire la cupola… che comunque non sarebbe stata visibile, nella foto. Adesso mettiamoci vicino le altre foto in sequenza… Il mesklinita rimase a osservare affascinato, mentre una mappa abbastanza chiara delle terre che non aveva ancora toccato prendeva forma sotto i suoi occhi. In un primo momento sembrò che gli sforzi di ambedue non approdassero a niente, perché la linea costiera assunse gradualmente un andamento verso nord, come Lackland aveva previsto. Inoltre a millenovecento chilometri circa a est e a otto o novecento a nord, l’oceano sembrava finire: la linea costiera piegava nuovamente verso ovest. In quel punto un fiume molto ampio si gettava nell’oceano, e con la speranza che quel corso d’acqua fosse in realtà uno stretto collegato con l’oceano orientale, Lackland cominciò ad allineare le foto che ne riproducevano il corso superiore. Ma ben presto la sua speranza andò delusa. Una numerosa serie di rapide e di cascate cominciava a quattrocento chilometri a monte del fiume e al di là di queste, in direzione est, l’ampio corso fluviale si assottigliava sempre più. Erano però presenti parecchi affluenti: evidentemente il grande fiume era il canale collettore di un vasto bacino fluviale in un’ampia regione del pianeta. Colpito dalla rapidità con cui si spezzettava in tanti corsi d’acqua minori, Lackland continuò ad allargare la mappa sempre più verso est, seguito con interesse da Barlennan. Da quanto si poteva capire, la direzione del corso principale deviava quasi impercettibilmente rispetto al primo tratto le cui sorgenti erano poste un poco più a sud, e, spostando il mosaico di fotografie in questa direzione, Lackland si trovò di fronte a una catena di montagne di notevoli dimensioni. A questo punto alzò lo sguardo e fissò Barlennan scuotendo sconsolatamente il capo. — Non ti fermare! — gli disse il mesklinita, che ormai conosceva il significato di quel gesto tipicamente umano. — C’è una catena simile nella parte centrale del mio paese, che è una penisola molto stretta e allungata. Và avanti nella ricostruzione almeno fino a quando arriverai a stabilire con certezza che i fiumi scorrono sull’altro versante delle montagne. Sebbene non fosse molto ottimista, Lackland seguì il suggerimento di Barlennan. La catena montuosa si rivelò incredibilmente stretta, con andamento generale da estnordest a ovestsudovest. Con grande sorpresa di Lackland, i numerosi corsi d’acqua sull’altro versante rivelarono in breve la tendenza a unirsi in un solo immenso fiume. Questo scorreva parallelamente alla catena di montagne un chilometro dopo l’altro, allargandosi sempre più, tanto che la speranza si riaccese nel cuore di Lackland: un ottocento chilometri più a valle il fiume raggiungeva l’ampiezza massima. E finalmente apparve un vasto estuario che confondeva le sue acque con quelle dell’oceano orientale. Lackland si mise febbrilmente al lavoro senza nemmeno interrompersi per mangiare, e soprattutto per dormire, necessità, questa, da non trascurare data la spietata forza di gravità di Mesklin, finché tutto il pavimento della sala fu ricoperto di fotografie combinate insieme in modo da formare la mappa di una nuova zona: un rettangolo di circa tremiladuecento chilometri d’estensione da est a ovest e di millecinquecento circa da nord a sud. La grande baia con la piccola insenatura dove aveva cercato riparo la «Bree» appariva chiaramente all’estremità occidentale, mentre la parte opposta era rappresentata dalla superficie piatta dell’oceano orientale. In mezzo, si stendeva la barriera continentale. La massa continentale era relativamente poco estesa. Nel suo punto più stretto, a ottocento chilometri a nord dell’equatore, non superava i milletrecento chilometri di larghezza da una costa all’altra. E la distanza diminuiva notevolmente se la si misurava a partire dall’ultimo tratto navigabile dei fiumi principali situato nell’entroterra. Forse cinquecento chilometri, parte dei quali attraverso una catena montuosa, erano tutto ciò che separava la «Bree» da una rotta relativamente facile per raggiungere la lontanissima zona del razzo, come volevano i terrestri. Cinquecento chilometri, un semplice passo in confronto alle distanze che mediamente bisognava percorrere su quell’immenso pianeta. Disgraziatamente, però, era molto più di un passo per un marinaio mesklinita: la «Bree» si trovava ancora nell’altro oceano. Lackland, dopo avere studiato in silenzio il mosaico tutt’intorno a lui per parecchi minuti, espresse a Barlennan le sue preoccupazioni. Non si aspettava nessuna risposta, invece il Comandante disse immediatamente: — Non vedo alcuna difficoltà, se tu disponi di altre lastre metalliche come quelle usate per trascinarti fin qua, insieme con la carne per il mio equipaggio! Capitolo 6 LA SLITTA — Vuoi dire che saresti disposto a trainare con una slitta la «Bree» per tutto il percorso sulla terraferma, allo stesso modo in cui avete trainato me? — chiese Lackland. — Non esattamente. Il peso della «Bree» sarebbe eccessivo per le nostre forze. No, mi riferivo alla possibilità che tu rimorchiassi la «Bree» su di una slitta con un altro trattore. — Capisco. Sarebbe infatti un’ottima soluzione, a meno di non trovarci davanti degli ostacoli invalicabili per il trattore. Ma saresti disposto a intraprendere un simile viaggio con il tuo equipaggio? E in seguito vi sentirete ancora soddisfatti del poco che possiamo fare per voi in cambio del vostro aiuto? Barlennan allungò le pinze in un gesto tipico che equivaleva a un sorriso terrestre. — Sarebbe un progetto infinitamente migliore di quello originario. Le merci che dalle coste dell’oceano orientale giungono fino al nostro paese attraverso le interminabili strade carovaniere dell’entroterra, quando arrivano ai nostri porti sono già favolosamente care, e un onesto mercante non riesce a ricavarne un margine accettabile di guadagno. Seguendo questa strada potrei riuscire a procurarmele direttamente, e ciò compenserebbe il rischio di affrontare i disagi del viaggio. Naturalmente, da parte tua dovresti impegnarti a riportarci indietro, attraverso l’istmo, quando sarà arrivato il momento di ritornare. — È una proposta molto giusta, Barl, e sono sicuro che la mia gente sarà d’accordo. Ma per quanto riguarda il viaggio via terra, queste sono regioni che tu non conosci affatto. Non può darsi che il tuo equipaggio abbia paura di affrontare terre sconosciute, con alte montagne, e popolate da mostri molto più grossi e pericolosi di quelli a cui siete abituati dalle vostre parti? — Anche in passato abbiamo affrontato tremendi pericoli. Io, poi, sono stato capace di abituarmi a stare in zone soprelevate, compreso il tetto del tuo veicolo. Quanto ai mostri, la «Bree» ha le sue armi di fiamma, e nessuno di quelli che popolano la terra può avere le dimensioni dei mostri marini. Ma adesso devo tornare alla «Bree»: le nubi si addensano di nuovo minacciose. Comunicherò all’equipaggio i nostri progetti e, per allontanare ogni dubbio e paura, ricorderò a tutti che i profitti della spedizione verranno divisi secondo il grado: non c’è un solo membro dell’equipaggio disposto a permettere che la paura prevalga sulla sete di guadagno. —. E tu? — chiese ridendo Lackland. — Oh, io non ho paura. — Il mesklinita scomparve nella notte, lasciando il terrestre incerto sull’esatto significato della sua risposta. Rosten, quando fu informato del nuovo progetto, commentò con una punta di ironia che a Lackland non mancavano di certo le idee per convincere i suoi superiori a fargli avere un nuovo trattore, ma in complesso si dichiarò favorevole alla proposta di Barlennan. — Si può sapere, ad ogni modo, che specie di slitta dovremo costruire per il transatlantico del tuo amico pinzuto? — La «Bree» è lunga esattamente tredici metri e larga un po’«meno di quattro. Non credo che peschi più di una quindicina di centimetri. È composta di una serie di zattere, che misurano circa un metro ciascuna e sono larghe una cinquantina di centimetri, legate insieme così da consentire la massima elasticità e rapidità nei movimenti; il che è abbastanza comprensibile su un mondo come questo. — E da cosa è mossa? — Dalla forza dei venti. Tutto sommato, è una zattera a vela. Ci sono alberi su almeno una ventina delle zattere che compongono la nave. Ho anche il sospetto che quasi tutte le zattere abbiano una specie di chiglia rientrabile, per permettere alla nave di essere tirata in secca. Comunque, non ho mai approfondito l’argomento con Barlennan. Non so con precisione quanto sia progredita l’arte nautica su questo pianeta, ma dall’indifferenza con cui Barlennan parla di traversare larghi tratti di mare aperto, ritengo che sappiano come difendersi da un forte vento contrario. — Probabile. Bene, costruiremo una slitta di metallo leggero, qui sulla luna, e te la spediremo sul pianeta appena sarà pronta, insieme col nuovo trattore. Intendiamoci bene, Lackland, se farai saltare anche quello, sarà inutile piagnucolare per averne un altro. Il più vicino che potresti trovare è sulla Terra. Barlennan si dichiarò soddisfattissimo, quando Lackland gli riferì le decisioni, qualche centinaio di giorni più tardi. — Partiremo appena la bufera perderà la sua forza — disse, a Lackland. — Troveremo ancora molta neve per terra, ma questo sarà un vantaggio se saremo costretti a passare attraverso un terreno accidentato, o comunque peggiore della sabbia sassosa che si trova su questa spiaggia. — Non credo che faccia molta differenza per il trattore — disse Lackland. Poi, prendendo in mano la nuova mappa, il prodotto delle sue ultime fatiche: — Per il tratto di terra ho studiato una rotta che mi sembra la migliore possibile. La più breve, quella che abbiamo scoperto insieme, ha l’inconveniente di costringerci a una lunga arrampicata su per le montagne. Allora ho preferito il percorso che qui vedi segnato con una riga rossa. Come puoi notare, segue il fiume che si getta nella grande baia da questa parte della penisola, per una lunghezza di circa millenovecento chilometri; poi attraversa in linea retta l’entroterra per altri seicento chilometri, fino a raggiungere le sorgenti di un altro corso d’acqua. Là potrai scendere il fiume sulla «Bree», se vorrai, o farti ancora trainare da me. Dipenderà se riterremo opportuno scegliere una soluzione più comoda per voi marinai o il sistema più rapido. L’aspetto peggiore di questo percorso sta nel fatto che si snoda a cinque o seicento chilometri dall’equatore: un’altra mezza gravità in più per me, da sopportare. Ma vedrò di farcela. Quando si furono messi d’accordo sulla strada da seguire, a Lackland restava ormai ben poco da fare, mentre Mesklin correva lungo la sua orbita verso l’equinozio ormai prossimo, che non sarebbe durato molto, naturalmente! Con il mezzo inverno dell’emisfero australe che cadeva quasi esattamente quando il pianeta gigante era al perielio, cioè nel punto dell’orbita più vicino al suo sole, il moto orbitale in autunno e in inverno era estremamente rapido. Ognuna di queste stagioni era un po’«più lunga di due mesi terrestri, mentre la primavera e l’estate occupavano ognuna circa ottocentotrenta giorni terrestri, pari, più o meno, a ventisei mesi. Ci sarebbe dunque stato tutto il tempo necessario a fare la traversata. La forzata inattività di Lackland non era condivisa dall’equipaggio della «Bree». Varie specie di armi furono portate al massimo grado di efficienza. Vennero tagliati e resi maneggevoli mazze e randelli, più grossi e pesanti di quelli che gli stessi Hars o Berblannen sarebbero stati capaci di brandire e roteare a latitudini più elevate. Trovarono alcune piante che contenevano nel fusto cristalli di cloro e le immagazzinarono nei serbatoi della polvere di fuoco. Mancavano, naturalmente, tutte le armi da lancio, di qualsiasi tipo: l’idea del proiettile non si era mai potuta sviluppare in un mondo dove nessuna forma intelligente di vita aveva mai visto un corpo solido mantenersi in sospensione senza alcun sostegno, dato che ogni grave lasciato cadere si dirigeva verso il suolo con una velocità tale da rendersi praticamente invisibile. Un proiettile calibro 50, sparato orizzontalmente nelle regioni polari di Mesklin, sarebbe calato di trenta metri nei suoi primi novanta di volo. Barlennan, dopo avere stretto amicizia con Lackland, si era potuto fare un’idea abbastanza approssimativa del concetto di «lancio» e aveva anzi pensato di chiedere al Volatore informazioni sulla possibilità di costruire armi basate su quel principio, anche se non voleva ancora rinunciare a quelle di tipo più familiare. Da parte sua, Lackland aveva preso in considerazione l’eventualità che durante la loro traversata dell’istmo incontrassero una razza che già conoscesse e usasse il principio dell’arco e della freccia. Aveva perciò chiesto e ottenuto da Rosten che il trattore promesso fosse armato con un cannoncino da 40 mm. a bombe incendiarie e dirompenti. La slitta venne finita facilmente e molto in fretta sulla Luna, ma, seguendo il consiglio di Lackland, non fu, portata subito sulla superficie di Mesklin, dove le bufere continuavano a lasciare i loro sedimenti di neve a base di metano e ammoniaca. Il livello oceanico non si era ancora alzato sensibilmente presso l’equatore, e i meteorologi si erano lasciati sfuggire osservazioni poco lusinghiere sull’attendibilità e le capacità linguistiche di Barlennan. Però, a mano a mano che la luce del sole si spingeva sempre più nell’interno dell’emisfero australe con l’avvicinarsi della primavera e che si facevano nuove fotografie mettendole a confronto con quelle prese in autunno, i meteorologi non dissero più niente. Anzi, potevi vederli aggirarsi senza scopo per tutta la stazione di Toorey, borbottando tra sé. Il livello del mare a latitudini superiori era già salito di almeno un centinaio di metri, come il mesklinita aveva previsto, e continuava a crescere ogni giorno di più. Il fenomeno di livelli marini profondamente diversi nel corso dell’anno non rientrava nell’esperienza di meteorologi educati sulla Terra. Tutti continuavano ancora a lambiccarsi il cervello, quando l’arco diurno del sole si allungò verso sud, oltre l’equatore e la primavera ebbe ufficialmente inizio nell’emisfero australe di Mesklin. Le tempeste erano diminuite straordinariamente di frequenza e di intensità parecchio tempo prima, sia perché l’eccezionale appiattimento del pianeta aveva ridotto molto in fretta l’irradiazione sulla calotta polare nord dopo la metà dell’inverno, sia perché la distanza di Mesklin dal sole era aumentata di oltre il cinquanta per cento durante lo stesso tempo. Barlennan, interrogato in proposito, si disse pronto a iniziare il viaggio con l’avvento astronomico della primavera e non mostrò nessuna preoccupazione per le tempeste equinoziali. Lackland ne informò la stazione della prima luna, e subito iniziarono le operazioni di trasferimento del trattore e della slitta sulla superficie del pianeta. La slitta venne portata giù per prima, in modo che l’equipaggio della «Bree» vi caricasse sopra la nave, mentre il razzo andava a prendere il trattore. Ma Lackland chiese ai compagni di non avvicinarsi con il razzo alla «Bree», e la voluminosa e goffa slitta fu lasciata presso la cupola, in attesa che arrivasse il trattore per rimorchiarla. Lackland guidò personalmente il trattore, benché l’equipaggio del razzo fosse rimasto a terra, pronto a fornire la propria assistenza. Ma nessun aiuto umano si rese necessario. I meskliniti, con un’attrazione gravitazionale pari a solo tre volte la gravità terrestre, furono perfettamente in grado di sollevare la loro imbarcazione. E l’insormontabile riflesso condizionato che impediva loro di mettere qualunque parte del corpo sotto una tale massa, non impedì che la trainassero sulla spiaggia con delle corde. Ogni marinaio, naturalmente, si teneva ancorato saldamente a un albero con una o due coppie di pinze posteriori. In questo modo la «Bree», a vele ammainate, scivolò facilmente sulla sabbia fin sopra la piattaforma metallica scintillante. I costruttori della slitta sulla lontana Toorey avevano provveduto a dotarla di fori e cavicchi sufficienti perché l’equipaggio potesse assicurarvi solidamente la «Bree». Poi la piattaforma venne attaccata al trattore, che nel frattempo era stato rifornito d’ogni cosa necessaria, compresi viveri per parecchi giorni. Ulteriori rifornimenti, se proprio indispensabili, sarebbero stati trasportati dal razzo. Infine Lackland salì a bordo del trattore, sigillò il portello, pompò fuori l’atmosfera mesklinita, liberò quella terrestre, immagazzinata in precedenza in speciali serbatoi, e senza altre esitazioni avviò i motori centrali di propulsione, guidando il trattore e il suo pesante traino verso est. Il carattere pianeggiante e senza asperità del terreno cominciò gradualmente a cambiare. Nei quaranta giorni che passarono prima che Lackland sentisse il bisogno di fermarsi per dormire, percorsero circa ottantacinque chilometri, e la spedizione si ritrovò in una regione di colline ondulate, non più alte di centocentotrenta metri. Nessun inconveniente si era verificato nella trazione della slitta o a bordo della nave caricatavi sopra. Barlennan riferì attraverso la radio che all’equipaggio piaceva quella nuova esperienza e che l’insolita inattività non aveva ancora annoiato nessuno. La velocità del trattore con il suo pesante traino era di circa otto chilometri all’ora, notevolmente superiore alla media di quel faticoso trascinarsi sul suolo che era la deambulazione mesklinita. Capitolo 7 IL MASSO Le alture, fino a quel punto del viaggio, non erano state in massima parte che lievi pendii dalle asperità livellate dalle intemperie. Non si era trovata traccia delle fosse e dei crepacci di cui Lackland aveva temuto la presenza prima di mettersi in viaggio. Le cime erano arrotondate e levigate, tanto che, se anche la marcia della colonna fosse stata molto più veloce, i membri della spedizione non si sarebbero neppure accorti di passarvi sopra. Ma adesso tutti poterono notare l’estrema singolarità dell’altura che avevano di fronte, ancora piuttosto lontana. Quest’altura era molto più estesa di quelle superate fino ad allora, ed anche più ripida, quasi una scarpata invece di una cupoletta. La sommità, inoltre, sembrava seghettata a causa di una fila di massi disposti a intervalli tanto regolari da far pensare a un’opera eseguita per uno scopo preciso da una mente intelligente. I massi, come dimensioni, andavano da macigni enormi, anche più grossi del trattore, a pietre non più grandi di un pallone da calcio, e tutti erano più o meno sferici. Lackland si fermò di colpo e guardò attraverso il cannocchiale (portava lo scafandro, ma si era tolto il casco), mentre Barlennan senza curarsi di quello che poteva pensare l’equipaggio superò con un salto la ventina di metri che dividevano la «Bree» dal trattore e si sistemò con decisione sul tetto di quest’ultimo. Attraverso l’apparecchio radio fissatovi sopra da tempo, a sua disposizione, il mesklinita si mise subito a parlare con Lackland seduto all’interno. — Che cos’è, Charles? È forse come una delle città che mi hai detto si trovano sul tuo pianeta? Non mi pare però che assomigli molto a quelle che ho visto nei tuoi films. — Speravo di saperlo da te — disse Lackland. — Non è comunque una città, e i massi sono troppo spaziati tra loro per essere una specie di muraglia o un fortino. Vedi muoversi qualcosa o qualcuno tra quelle pietre? Con il cannocchiale non vedo niente, ma forse i tuoi occhi sono più acuti. — No, non vedo niente. Nemmeno che quelle irregolarità sulla cima sono massi, come hai detto tu. Siamo ancora troppo lontani. — Quella fila di massi non si trova lì a caso. Ci converrà tenere gli occhi bene aperti, nell’eventualità che chi li ha messi si faccia vivo. Meglio avvertire i tuoi marinai, Barl. Lackland aveva preso mentalmente nota della scarsa potenza visiva di Barlennan. Non era abbastanza ferrato in esobiologla e fisica per farsene un’idea precisa solo in base alle dimensioni degli occhi del mesklinita. Questi avrebbe avuto un modo solo per potere vedere distintamente quanto il terrestre: fare uso di minori lunghezze d’onda luminosa. Del resto, perfino l’astro più fulgido del sistema binario 61 Cygni emanava meno radiazioni ultraviolette del Sole. Quanto all’astro più opaco di questa stella doppia, era sempre troppo lontano da Mesklin, anche quando il pianeta si trovava al perielio, per essere di qualche aiuto, e poi era ancora più rosso dell’altro. Per due o tre minuti, mentre il sole si spostava nel cielo di un arco sufficiente a illuminare gran parte delle aree fino allora in ombra, la spedizione rimase in attesa e in attenta osservazione. Non ci fu però nessun movimento, se non quello delle ombre degli oggetti investiti dalla luce. Alla fine Lackland rimise in moto il trattore. Il sole tramontò mentre la colonna discendeva un pendio. Il trattore aveva un solo faro, che Lackland teneva puntato all’altezza del terreno davanti a lui, e pertanto nessuno della spedizione poté vedere se e che cosa avvenisse tra i massi allineati in distanza sulla cima dell’altura. L’alba li trovò occupati ad attraversare un altro fiumiciattolo, e la loro tensione riprese ad aumentare, appena iniziata la salita del colle misterioso. Per un paio di minuti non distinsero niente, poiché il sole si trovava proprio di fronte a loro, ma poi sali abbastanza in alto nel cielo per consentire una buona visione della zona. Nessuno dei molti occhi appuntati sulla cima del colle poté scoprire il minimo cambiamento dalla sera prima. Solo l’impressione vaga e diffusa, tanto di Lackland quanto di tutti i meskliniti, che ora i massi fossero aumentati di numero. Ma siccome nessuno aveva pensato a contarli, il giorno prima, l’impressione non poté essere confermata. Comunque, continuarono a non notare alcun movimento. Ci vollero cinque o sei minuti per salire lungo il fianco dell’altura alla velocità di otto chilometri orari del trattore, così il sole era già definitivamente alle loro spalle quando alla fine giunsero sulla cima. Lackland vide che in parecchi casi la distanza tra i massi più grossi permetteva agevolmente il passaggio del trattore e della slitta trainata e allora si diresse in diagonale verso uno di questi varchi, mentre si avvicinava alla cresta della collina. Passò, stritolandoli, su alcuni dei massi più piccoli, e per un istante Dondragmer, sulla nave, ebbe l’impressione che una di queste pietre avesse danneggiato il trattore. Il veicolo si era infatti bruscamente fermato. Barlennan era sempre bene in vista sul tetto, con tutti i suoi occhi fissi sulla scena sottostante; il Volatore non era visibile, naturalmente, ma alla fine il Secondo della «Bree» pensò che anche Lackland doveva essere talmente assorto a guardare nella vallata al di là della cresta da essersi dimenticato di guidare. — Comandante! Che succede? — gridò Dondragmer, facendo contemporaneamente cenno ai guerrieri dell’equipaggio di avvicinarsi ai serbatoi della polvere di fuoco. Gli altri marinai si distribuirono lungo le zattere esterne, brandendo mazze, lame e lance, senza che ci fosse stato bisogno d’impartire ordini. Per un lungo istante Barlennan non rispose e il Secondo stava già per dare il via a una specie di sortita dalla nave, per proteggere il trattore (dato che ignorava l’installazione provvisoria del cannone a tiro rapido), quando Barlennan ritornò e, visti i preparativi, fece un gesto rassicurante. — Direi che va tutto bene — disse. — Non siamo riusciti a vedere il minimo movimento, ma quella che si vede ha tutta l’aria di essere una città. Fra un istante il Volatore vi tirerà più avanti. Cosi potrete vedere anche voi quello che c’è fuori bordo. Pochi attimi dopo, il trattore si mosse e, di conseguenza, la situazione cambiò bruscamente. Ciò che Lackland aveva già avuto modo di esaminare e Barlennan appena di intravedere era un’ampia vallata, poco profonda, di forma circolare, interamente racchiusa da colline come quella in cima alla quale era giunta la spedizione. Lackland ebbe l’impressione che, forse, avrebbe dovuto esserci un lago nel fondo della valle: non vi si vedeva infatti alcun canale di sfogo delle piogge e delle nevi disciolte. Il terrestre osservò anche che non c’era traccia di neve sulle pendici interne di quelle colline, nude e rapate come poche altre. Era una stranissima topografia quella che appariva agli occhi di Lackland. Era impossibile che fosse naturale. A breve distanza dalle vette cominciavano dei canali larghi, poco profondi, stranamente regolari. A mano a mano che scendevano verso il centro della conca, si restringevano e diventavano più profondi, come se fossero stati scavati allo scopo di convogliare l’acqua piovana in un serbatoio. Ma non confluivano tutti in un unico punto centrale, come avrebbero dovuto fare in questo caso, anzi non arrivavano nemmeno nel centro, pur spingendosi tutti fino al fondovalle, relativamente piano e levigato. Ancora più interessanti dei canali erano i rilievi che li separavano. Anche questi, naturalmente, si facevano più pronunciati via via che i canali si approfondivano: all’inizio, in alto sul pendio, apparivano come gibbosità dolcemente arrotondate, ma lungo la discesa i loro fianchi diventavano sempre più ripidi fino a congiungersi ad angolo retto con il letto dei canali. Alcune di queste piccole muraglie si spingevano fin quasi nel mezzo della conca. Né puntavano tutte nella stessa direzione; molte si piegavano lungo il cammino in lievi curve che le facevano assomigliare più alle flange di una pompa centrifuga che ai raggi d’una ruota. Erano troppo sottili, in cima, perché un uomo potesse camminarci sopra. Lackland calcolò che canali e pareti divisorie avessero, là dove s’interrompevano, una larghezza media di cinque metri. Le pareti, perciò, erano abbastanza spesse da poterci abitare, soprattutto per creature esili e piccole come i meskliniti; e la presenza di numerose aperture sparse nei tratti più vicini al suolo rafforzava l’idea che fossero vere e proprie abitazioni. Le aperture che non si trovavano direttamente alla base delle pareti, inoltre, avevano delle rampe per salirvi, nettissime attraverso il cannocchiale. Così Lackland, prima ancora di distinguere una sola creatura vivente, fu certo di avere sotto gli occhi una città. Appena rimise in moto il trattore, una frotta di forme nerastre apparve nelle aperture che supponeva servissero da porte, e benché i particolari a quella distanza non si potessero scorgere, non c’era dubbio che fossero proprio creature viventi. Lackland s’impose stoicamente di non fermare più il pesante veicolo per osservarle fino a quando non avesse trascinato la «Bree» in un punto da cui l’equipaggio potesse vedere la città. Ma non c’era fretta, a quanto pareva. Le forme erano immobili, intente, lo si capiva, a osservare i nuovi venuti, mentre eseguivano la manovra di traino; tanto che Lackland poté impiegare i minuti che mancavano al tramonto del sole per studiarle meticolosamente. Nonostante il cannocchiale, però, alcuni particolari restavano ancora nascosti perché, per qualche loro motivo, gli esseri non erano usciti dalle abitazioni. Era più che evidente, comunque, che appartenevano alla stessa specie della razza di Barlennan. I corpi erano allungati e a forma di bruco; numerosi occhi — difficile contarli a quella distanza! — erano disposti sul segmento anteriore del corpo, da cui sporgevano anche membra molto simili, se non identiche, alle braccia armate di pinze di Barlennan. Il colore era un misto di nero e di rosso, con predominio del nero, come nell’equipaggio della «Bree». Barlennan non aveva potuto distinguere tutte queste caratteristiche, ma gliele descrisse Lackland, parlando fino al momento in cui la città in basso scomparve nelle ombre del crepuscolo. Barlennan riassunse sbrigativamente le informazioni alla sua gente, che attendeva in grande tensione. Poi Lackland chiese: — Avevi mai saputo di tuoi simili così vicini all’Orlo, Barl? C’è qualche probabilità che siano conosciuti da qualcuno del tuo popolo o che addirittura parlino un linguaggio simile al tuo? — Ne dubito. La mia razza incontra difficoltà enormi appena si spinge a nord di quella che tu una volta hai chiamato la «linea delle cento G». Io conosco parecchie lingue, ma mi sembra del tutto improbabile che qui parlino una di esse. — Che cosa ci conviene fare, allora? Vorrei sinceramente conoscere questi esseri da vicino, ma quale potrà essere la loro reazione? — È difficile dirlo. Possono spaventarsi fino a perdere la ragione alla vista del trattore e di me disteso sul tetto… ma possono anche avere istinti diversi nei riguardi dell’altezza qui, presso l’Orlo del Mondo. Abbiamo incontrato molti popoli strani nei nostri viaggi e a volte abbiamo potuto commerciare, altre abbiamo dovuto combattere. In linea di massima, direi che se non facciamo vedere le armi e mettiamo bene in mostra le merci che vogliamo vendere, dovrebbero provare almeno un po’«di curiosità, prima di diventare aggressivi. Anche a me piacerebbe scendere verso quella città. Decisero per prima cosa di trainare la «Bree» intorno alla valle, lungo il crinale delle colline, fino al lato opposto, e poi di scendere con il solo trattore e con tutti i membri dell’equipaggio che, oltre a Barlennan, accettassero di partecipare alla spedizione sistemati sul tetto del trattore. L’equipaggio approvò l’idea di girare con la nave intorno alla città, anziché attraversarla, ma quando si trattò di sapere chi volesse salire sul tetto, nessuno ne ebbe il coraggio. Eppure desideravano tutti scendere nella città. Alla fine Dondragmer propose che l’intero equipaggio, tranne quelli che dovevano restare a guardia della nave, marciasse verso il fondovalle, dietro il trattore, strisciando sul terreno come avevano sempre fatto da quando erano nati. Frattanto il sole era sorto un’altra volta. Lackland, dopo aver fatto compiere al trattore un giro di novanta gradi, cominciò a seguire l’orlo della valle, immediatamente sotto la fila di massi. La città continuava a non dare segni di vita; ma appena il trattore e il suo rimorchio si misero in moto, di nuovo delle teste apparvero sulle piccole soglie. Erano molte di più, questa volta. Arrivato sul crinale opposto della valle in pochi giorni di Mesklin e staccato il cavo che legava la «Bree» al veicolo, Lackland voltò il muso del trattore in basso, verso la città nel fondovalle. Dal momento che il sole ora sorgeva alle loro spalle, mentre scendevano da quel lato del crinale, la visibilità era eccellente. Una fortuna, perché c’ era parecchio da vedere. All’avvicinarsi degli stranieri, infatti, alcuni abitanti uscirono del tutto dalle loro abitazioni e anche se erano quelli che si trovavano nella parte più lontana della città, mentre i più vicini al trattore rimasero prudentemente al riparo, né Lackland né Barlennan dettero peso alla cosa. A mano a mano che la distanza diminuiva, un fatto diventò evidente: quelle creature, nonostante le apparenze, non appartenevano alla razza di Barlennan. Somiglianti, sì: forma e struttura del corpo, numero di occhi, di organi di locomozione, di arti prensili, tutto corrispondeva; ma gli abitanti di quella città erano almeno tre volte più lunghi degli oriundi del lontanissimo sud. Misuravano almeno un metro e cinquantacinque di lunghezza sulla pavimentazione di pietra dei canali, e avevano larghezza e spessore in proporzione. I marinai, che si erano disposti intorno al trattore, fissavano gli abitanti della città in un silenzio quasi altrettanto profondo. Le abitazioni a cui erano abituati avevano pareti alte meno di dieci centimetri e il tetto, un semplice riparo dalle intemperie, era di tessuto. L’idea di un tetto fatto di materiali solidi era per loro assurda, inconcepibile. Se non avessero visto con i loro stessi occhi i giganteschi abitatori della città nell’interno di quelle case incredibili, i marinai di Barlennan le avrebbero scambiate per qualche formazione naturale di nuovo tipo. Lackland, immobile nella cabina di guida, osservava e rifletteva. Quella sosta, in fondo, era solo una perdita di tempo, perché gli mancavano i dati necessari per trarne indicazioni utili a formare ipotesi valide; ma possedeva quella specie di mente che non può restare oziosa. Guardandosi intorno per la città, tentava lo stesso di immaginare la vita dei suoi abitanti, quando a un tratto il comportamento di Barlennan attirò la sua attenzione. Il Comandante mesklinita non aveva affatto la sensazione di perdere tempo, dato che intendeva seriamente trafficare con quella razza. Solo se questi sconosciuti non fossero stati disposti a farlo, lui avrebbe ripreso il suo viaggio come se niente fosse. Per il momento stava gettando le merci giù dal tetto del trattore e chiamando i suoi marinai perché si dessero da fare. Gli obbedirono, e appena le merci furono tutte giù, Barlennan stesso si gettò a terra dietro l’ultimo pacco — gesto che non parve stupire minimamente i giganti attenti e silenziosi — e si unì ai suoi marinai nel compito di disporre le merci in mostra per la vendita. C’erano rotoli di quelle che sembravano stoffe di vari colori, mazzetti che potevano essere di radici secche o anche lunghezze di corda, minuscoli vasi coperti e grandi anfore vuote: una variopinta esposizione di oggetti, la cui funzione e il cui scopo il terrestre poteva soltanto tentare di indovinare. La vista di tanta mercanzia attirò i nativi, che cominciarono ad affollarsi davanti agli oggetti (non era chiaro a Lackland se per curiosità o minaccia). Ormai un cerchio compatto di indigeni circondava il trattore, lasciando libera solo la direzione da cui esso era venuto. Il silenzio da parte di quegli strani esseri continuava e cominciava a preoccupare Lackland. Quanto a Barlennan, quello strano comportamento lo lasciava indifferente, oppure sapeva nascondere perfettamente le sue impressioni. Aveva scelto un individuo dalla folla dei presenti, in base a qualche misterioso criterio personale, e stava svolgendo il suo programma di vendite. Per il terrestre era del tutto incomprensibile come riuscisse a cavarsela. Il mesklinita gli aveva detto di non credere che quella razza capisse o parlasse la sua lingua, eppure comunicava lo stesso, usando gesti che non avevano alcun senso per Lackland, il quale non capiva come fosse possibile trasmettere un concetto con tale sistema. Ma evidentemente Barlennan stava anche riscuotendo un certo successo. Il fatto era che, purtroppo, in pochi mesi di rapporti amichevoli con quelle strane creature, Lackland non aveva imparato nulla della loro psicologia. Né può essergliene fatta una colpa. Anni dopo gli psicologi specialisti dovevano restare sorpresi e perplessi di fronte a quella che pareva una bizzarria della natura: o tanta parte delle azioni e dei gesti dei meskliniti sono direttamente connessi con le funzioni fisiologiche che il loro significato risulta automaticamente comprensibile a ogni altro membro della stessa specie. E poiché quei giganteschi abitatori della città, pur non appartenendo alla razza di Barlennan, erano ad essa abbastanza simili come strutture e fisiologia, la comunicazione reciproca non rappresentava un problema, mentre era invece impossibile per Lackland. Così, numerosi «cittadini» emersero dalle loro case portando con sé vari articoli da barattare con la merce di Barlennan. I marinai si dettero subito a trafficare, e il mercato continuò per tutto il tempo che il sole impiegò ad attraversare il cielo e anche durante il periodo buio che seguì. Se la luce artificiale, proiettata dal faro del trattore, provocò sorpresa o disagio nei giganti, questo nemmeno Barlennan fu in grado di capirlo. Gli strani esseri concentravano tutta la loro attenzione sui baratti e sulle trattative in corso, ma ognuno, appena dato via ciò che possedeva o acquistato quello che pareva servirgli, si ritirava nella propria abitazione o lasciava comunque il posto a un altro. Di conseguenza, in pochissimi giorni tutte le residue merci di scambio di Barlennan cambiarono proprietario e gli articoli acquistati vennero caricati sul tetto del trattore. — E adesso — disse Barlennan, quando l’ultimo dei giganti fu scomparso in una delle case e il trattore rimase solitario al centro dello spiazzo deserto — non abbiamo più niente da barattare qui. Vuoi riprendere il viaggio subito o hai qualche proposta da fare? — Mi piacerebbe sapere come sono fatte all’interno queste case, ma non vedo come potrei passare da una delle porte, anche se potessi togliermi lo scafandro. E tu? Barlennan parve esitare: — Non credo sia prudente — disse infine. — Questa gente ha trafficato in modo molto pacifico, ma c’è qualcosa in ognuno di loro che mi preoccupa, anche se non saprei dire cosa. — Vuoi dire che non t’ispirano fiducia? Sospetti che intendano riprendersi quello che ti hanno dato, adesso che non hai più niente da scambiare? — Non precisamente. Mettiamola così: se il trattore arriverà fino sull’orlo della valle e sarà agganciato alla nave, in modo che ci sia possibile partire quando vogliamo, senza che nel frattempo questa gente ci abbia dato noie, tornerò io quaggiù a dare un’occhiata dentro le case. Va bene? Il rimbombo della radio, attraverso cui si parlavano il terrestre nell’interno e il mesklinita sul tetto del trattore, aveva intanto attirato alcuni dei nativi, che poi, corsi dentro le loro case, ne erano subito riemersi portando altri oggetti. Era chiaro che quella strana cassetta parlante li attraeva moltissimo. Il rifiuto di Barlennan parve stupirli. Alle loro rinnovate profferte, espresse con l’aggiunta di altri oggetti, Barlennan rispose dando ordine ai suoi marinai di lanciargli sul tetto le merci che non vi erano state ancora caricate. Come offesi, i giganti, quasi a un segnale convenuto, rientrarono tutti nelle loro abitazioni. In preda a una persistente inquietudine, Barlennan teneva d’occhio le varie porte più vicine al trattore; ma non era da lì che sarebbe venuto il pericolo. Fu il grande Hars che l’avvertì, mentre, imitando i nativi, sollevava da terra la parte anteriore del corpo per sorvegliare un pacco di merci ch’era stato lanciato sul tetto e i suoi occhi si posavano così sul canale lungo cui era sceso il trattore. Subito emise uno di quegli ululati incredibilmente acuti, che non mancavano mai di sbalordire — e d’impressionare — Lackland. All’urlo seguì un torrente di parole del tutto incomprensibili per il terrestre, ma non per Barlennan che, dopo aver guardato su per il canale, gridò a Lackland concitatamente: — Charles! Guarda lassù! Muoviamoci! Uno dei massi più grossi e pesanti, grande quasi come il trattore, era stato staccato dalla sua posizione sull’orlo della valle, all’imboccatura del canale: le pareti che si alzavano gradatamente lo guidavano con precisione lungo lo stesso percorso seguito dal veicolo. Era ancora lontano almeno un chilometro, e molto in alto, ma la sua velocità di discesa aumentava in ogni momento, accelerando la caduta, sotto l’effetto di una forza di gravità tre volte superiore a quella terrestre! Capitolo 8 CURA PER L’ACROFOBIA Rapidissimo, Lackland mise in moto il trattore, lo fece girare di novanta gradi con una curva così stretta da rischiare di spaccare parte dei cingoli, e si allontanò dall’imboccatura del canale, dove stava per piombare il masso. Soltanto allora, in effetti, poté valutare la diabolica trappola urbanistica della città. I canali, come aveva già notato, non arrivavano in linea retta nello spazio centrale, ma erano disposti in modo che da almeno due di essi contemporaneamente potessero precipitare altrettanti massi su ogni parte della piazza. Infatti la pronta ritirata permise al terrestre di sottrarsi al primo masso, ma evidentemente era stata prevista, perché altri macigni stavano già rotolando dal crinale verso il fondo. Per un istante Lackland si guardò intorno in tutte le direzione, nella vana ricerca di un luogo fuori dalla portata di uno di quei terribili proiettili. Poi, volutamente, lanciò il trattore in uno dei canali e si mise a salire a tutta forza. Anche da lì stava scendendo un masso: una roccia sferica che a Barlennan sembrò la più grossa di tutte quelle lanciate fino a quel momento e che diventava a ogni istante più enorme e mostruosa. Il mesklinita si accinse a saltare giù dal tetto, chiedendosi se a Lackland per caso non avesse dato di volta il cervello. Ma a un tratto echeggiò un boato lacerante che lo fece irrigidire nell’immobilità più assoluta: era questo il modo caratteristico con cui tutti i componenti della sua specie reagivano a un pericolo immediato. Quattrocento metri più in alto nel canale e cinquanta metri prima del masso che precipitava, una sezione del terreno esplose con una gigantesca fiammata e un’enorme nuvola di polvere: le granate di Lackland erano arrivate a segno. Un secondo dopo, il masso penetrava nella nuvola di polvere. Allora il lanciagranate tuonò di nuovo, emettendo questa volta una mezza decina di schiocchi in rapida successione che si fusero in un rombo prolungato d’effetto straordinario. Solo una metà del masso riemerse dalla nuvola di polvere, con una forma che non era più nemmeno approssimativamente sferica. L’urto delle grosse granate dirompenti lo aveva quasi fermato del tutto, e l’attrito fece il resto molto prima che il masso arrivasse al trattore che stava lentamente arrancando: il blocco di roccia era ormai troppo squadrato ed eroso per poter ancora rotolare. Altri massi erano stati fatti rotolare ed erano pronti per essere lanciati giù per il canale, ma non si mossero. Evidentemente, i giganti erano capaci di rendersi conto di un rapido cambiamento di situazione e avevano capito che con quei massi non sarebbero mai riusciti a distruggere il trattore. C’era la possibilità di un assalto diretto, ora, si disse Lackland: i giganti avrebbero senz’altro potuto arrampicarsi con grande facilità sul tetto del veicolo per riprendersi le loro merci, insieme con la radio. Ed era difficile immaginare come loro due soli avrebbero potuto fermarli. — Può darsi che tentino qualcosa del genere — disse Barlennan, quando gli ebbe esposto per radio i suoi dubbi. — Vuol dire che ci difenderemo. E poi, non siamo soli. Alludeva evidentemente ai suoi marinai, che però si trovavano in una situazione molto critica. Si erano visti piombare addosso degli oggetti pesantissimi, mentre erano intrappolati in uno spiazzo circondato da muraglie verticali. Arrampicarsi era una cosa impensabile, benché i piedi a ventosa, cosi utili ai meskliniti durante le raffiche degli uragani, potessero rivelarsi un elemento prezioso in questa nuova impresa: e anche saltare, come avevano visto fare al loro Comandante, pur non essendo cosa fisicamente impossibile, sembrava loro ancora più penoso della morte per schiacciamento. Ma quando cede la mente a volte prende il sopravvento l’istinto di conservazione. Tutti i marinai, meno due, saltarono e di questi due, il primo si decise ad arrampicarsi, presto e bene, su per il muro di una «casa». Il secondo era Hars, quello che aveva segnalato il pericolo. Forse la sua superiore forza fisica lo aveva preservato più degli altri dal panico, o forse aveva un orrore eccessivo dell’altezza. Il fatto è che quando arrivò un piccolo masso, grosso come un pallone da calcio e quasi altrettanto sferico, Hars si trovava ancora fermo sul posto. Fu come se avesse colpito, ai fini degli effetti dell’urto, una massa equivalente di gomma viva: la corazza protettiva dei meskliniti era di una sostanza chimicamente e fisicamente analoga alla chitina degli insetti terrestri, con una resistenza, una durezza e un’elasticità proporzionali al tipo di vita esistente sulla superficie di un pianeta come Mesklin. Il masso, nonostante l’attrazione di tre G, rimbalzò in alto per una decina di metri, superando il muro che normalmente avrebbe dovuto fermarlo, urtando contro quello opposto del canale accanto, e continuando a rimbalzare così da un muro all’altro in salita, finché tutta la sua energia cinetica non si esaurì. Quando infine ritornò, rotolando dolcemente, nello spiazzo, non aveva più nessuna forza d’urto e Hars era il solo marinaio a trovarsi ancora sul luogo del «mercato». Gli altri, imponendosi un minimo di controllo nei loro salti frenetici, avevano già raggiunto il tetto del trattore o ci stavano arrivando. Lo stesso arrampicatore aveva abbandonato i suoi sistemi di faticosa locomozione, adottando una tecnica di salti più veloce. Hars, benché armato di una corazza incredibilmente resistente in confronto ai criteri terrestri, non poteva aver superato il tremendo colpo senza ferite. Non gli si era mozzato il fiato, essendo privo di polmoni, ma era pieno di graffi e ammaccature ed era rimasto stordito dall’urto. Passò un minuto intero prima che potesse riprendere il controllo dei suoi movimenti abbastanza da fare un tentativo coordinato per seguire il trattore. Nessuno seppe mai spiegarsi perché in quel minuto non lo avessero assalito: forse, secondo Barlennan, i giganti della città erano più propensi al ladrocinio che non al massacro e non avevano visto nessun vantaggio a uccidere il marinaio caduto. Comunque sia, Hars ebbe il tempo di riprendersi e di raggiungere i suoi compagni sul tetto del trattore. Con tutti i suoi passeggeri al sicuro a bordo e il tetto cosi gremito che alcuni di essi si trovavano addirittura sull’orlo, Lackland riprese la salita verso il crinale delle colline. Nessun masso venne più fatto rotolare: evidentemente, gli indigeni che li avevano lanciati si erano ritirati nelle gallerie sotterranee che dovevano collegare la città alle sue imponenti difese elevate. Raggiunta la «Bree» e presala nuovamente a rimorchio, Lackland decise, sia pure a malincuore, di rinunciare a qualunque esplorazione fino a quando la nave non fosse stata calata nell’oceano orientale. Mentre la marcia preseguiva, il terrestre chiamò Toorey, ascoltò umilmente i rabbiosi rimproveri di Rosten, quando questi seppe del rischio che avevano corso, e lo tacitò ancora una volta dicendogli che molti campioni di tessuti vegetali erano stati raccolti ed erano pronti per essere ritirati. Il razzo atterrò davanti alla spedizione, a una prudente distanza per non turbare il sistema nervoso dei meskliniti, e dopo averne atteso l’arrivo, ritirò i campioni e aspettò di nuovo che fossero abbastanza lontani per ripartire. Questa operazione durò molti giorni, e altri ancora ne passarono in seguito senza che si verificasse alcun evento importante oltre la visita del razzo mandato da Toorey. Ogni dieci o dodici chilometri, veniva avvistato un poggio sormontato dai massi in fila, ma la carovana lo evitava accuratamente, e nessuno dei giganti si fece mai vedere fuori delle città. Il fatto dava da pensare a Lackland, che non riusciva a capire dove e come quegli esseri si procurassero da mangiare. Non avendo nient’altro da fare salvo che guidare il trattore, naturalmente il terrestre ebbe il tempo di formulare parecchie ipotesi su quelle strane creature. Le espose anche a Barlennan, che questa volta non seppe essergli di nessun aiuto. Un’ipotesi in particolare, però, gli appariva più convincente delle altre. Gliela suggeriva la forma che i giganti avevano dato alla loro città. Questa forma non sembrava molto pratica per respingere nemici della loro stessa specie, che ben difficilmente si sarebbero lasciati cogliere di sorpresa; e d’altra parte i giganti non avevano costruito le loro città nella previsione di veder comparire un giorno il trattore e la «Bree»… Il motivo plausibile era un altro. Si trattava di una semplice congettura, ma spiegava la configurazione della città, l’assenza di indigeni negli immediati dintorni e insieme l’assenza di qualsiasi tipo di coltura agricola. Lackland non la espose a Barlennan, perché anche questa aveva i suoi punti deboli, non spiegava, ad esempio, il fatto che loro fossero potuti arrivare fin là senza essere molestati. Tuttavia non si stupì gran che, una mattina — la carovana era giunta ormai a circa trecentocinquanta chilometri dalla città dove Hars era stato colpito dal masso — di vedere una specie di montagnola sollevarsi all’improvviso su una ventina di zampe tozze, elefantine, alzare il più in alto possibile una testa in cima a un collo lungo non meno di sei metri, osservare per un lungo istante la spedizione da una serie incredibile di occhi, e infine mettersi in marcia scompostamente verso il trattore che le veniva incontro. Barlennan, che per una volta tanto non viaggiava sul tetto del carro corazzato, rispose immediatamente alla chiamata di Lackland. Il terrestre aveva fermato il trattore. Aveva ancora parecchi minuti di tempo per decidere il da farsi, prima che il colosso, trascinando lentamente la sua enorme mole, li raggiungesse. — Barl, sono sicuro che non hai mai visto niente di simile. Un bestione così non potrebbe mai spingersi molto lontano dall’equatore. — Infatti non l’ho mai visto, e non ne ho nemmeno sentito parlare. Non posso dirti se e quanto sia pericoloso. Francamente, l’idea di scoprirlo non mi attira molto. Certo però che è una gran bella montagna di carne! Forse… — Se vuoi dire che non sai se quell’animaletto mangia carne o vegetali, io sono propenso a credere che sia carnivoro — disse Lackland. — Un erbivoro non si lancerebbe verso la prima cosa che vede muoversi, magari più grossa di lui, a meno che… non sia così stupido da prendere il trattore per una femmina della sua specie. Ma ne dubito. Sai, già da un po’«di tempo, stavo pensando che la presenza di un grosso carnivoro sarebbe la spiegazione più semplice del perché i giganti non escano mai dalle loro città e del motivo per cui le hanno costruite come trappole così micidiali. Probabilmente attirano queste belve, quando appaiono sulla cima delle colline intorno, mostrandosi sulle loro porte, come hanno tentato di fare col trattore. È un modo come un altro per avere carne fresca direttamente a domicilio. — Potrebbe anche essere così — disse il mesklinita con una punta di impazienza — ma non mi sembra che ci aiuti a risolvere il nostro problema immediato. Cosa facciamo ora? Quel tuo tubo che lancia fuoco e che ha spaccato il masso potrebbe certamente ucciderlo, ma forse non ne lascerebbe abbastanza carne da utilizzare né da mettere da parte. E se ci accostassimo al mostro con le nostre reti, gli saremmo troppo vicini nel caso che tu dovessi sparare per salvarci. — Vuoi farmi credere che pensi di assalire con le tue reti un colosso simile? — Certo. Non scapperebbe più, una volta che fossimo riusciti a imprigionarvelo dentro. Il guaio è che ha delle zampe troppo grosse per passare attraverso le maglie, e così non possiamo usare il nostro solito sistema di stendere le reti dove sta per passare la preda. Dovremo gettargli la rete intorno al corpo e alle zampe, e poi tirare, stringendo fino a bloccarlo. — Salta giù e fà staccare la slitta con la nave. Io porterò il trattore vicino al mostro, cercando di attirare la sua attenzione su di me, se vuoi. Se poi deciderai di catturarlo, e vi trovaste nei guai, farò in modo di sparargli con il cannone senza colpirvi. Sganciata la «Bree», Barlennan e il suo equipaggio rimasero a guardare sbalorditi il trattore proseguire verso il colosso, spostandosi poi sulla destra, in modo da non impedirne la vista. Vedendo avanzare il trattore la bestia si era fermata. La sua testa si era abbassata fino a meno d’un metro dal suolo e il lungo collo si tendeva al massimo, ondeggiando lentamente prima da una parte, poi dall’altra, mentre i suoi molteplici occhi studiavano la situazione da tutte le prospettive possibili. Non badò minimamente alla «Bree» e concentrò tutta la sua attenzione sul trattore, considerandolo evidentemente il problema più urgente. E quando Lackland si spostò sulla destra, il mostro girò, lentamente, strisciando col corpo gigantesco, per continuare ad avere il trattore di fronte. Allora Lackland rimise in moto la sua macchina, dirigendosi verso il colosso. Questo si era adagiato per terra, poggiando il ventre direttamente al suolo, quando il trattore aveva smesso di spostarsi di lato. Adesso però, vedendo che si rimetteva in moto, si alzò sulle molte zampe e tirò la testa all’indietro, quasi risucchiandola nell’interno del gran corpo, in una chiara mossa istintiva di difesa. Lackland fermò il trattore ancora una volta, prese una macchina fotografica e scattò parecchie foto del mostro; poi, visto che il colosso non sembrava affatto in vena di aggredire, si limitò a osservarlo per un paio di minuti. Il corpo era notevolmente più massiccio di quello di un elefante terrestre; sulla Terra, avrebbe potuto pesare una decina di tonnellate. Il peso era distribuito equamente fra le dieci paia di zampe, cortissime ed enormemente tozze. Lackland dubitò che il mostro potesse strisciare più rapidamente di quanto aveva fatto prima. Dopo qualche minuto d’attesa, la bestia ricominciò ad agitarsi. La testa riemerse in parte e il collo ricominciò a ondeggiare lentamente di qua e di là, come in cerca di altri nemici. Lackland, temendo che la «Bree» e il suo equipaggio venissero scoperti, spinse avanti il trattore di un altro metro; allora il bestione riprese subito la sua posa difensiva. La manovra si ripetè parecchie altre volte, a intervalli via via più brevi. La schermaglia ebbe bruscamente fine quando 0 sole calò a ovest dietro una fila di colline. Allora Lackland, non sapendo se la bestiaccia volesse o potesse combattere di notte, corse ai ripari accendendo tutte le luci del trattore. Quell’intenso bagliore dette un evidente fastidio all’animale. Batté rapidamente le palpebre sulle molte pupille accecate dai fari e costrette a contrarsi per proteggersi; poi, con un gemito sibilante che attraverso l’altoparlante sul tetto risuonò nelle orecchie del terrestre nell’interno, si spinse barcollando in avanti e colpì. Lackland non si era accorto di essere tanto vicino, o meglio, non si immaginava che la bestiaccia potesse allungarsi tanto in avanti. Il collo si distese in tutta la sua lunghezza, molto maggiore di quanto non fosse apparsa prima, sporgendo in fuori la testa massiccia, per poi piegarla impercettibilmente di lato, quando l’animale raggiunse la massima velocità. Una delle grandi zanne colpi fragorosamente e strisciò via sulle piastre corazzate del fianco del trattore, e in quello stesso istante il faro principale si spense. Un altro sibilo, ancora più acuto e lamentoso, fece sospettare a Lackland che la sorgente d’alimentazione dell’impianto elettrico fosse stata schiacciata da qualche parte angolosa della testa del mostro; ma non ebbe il tempo di controllare. Fece rapidamente marcia indietro, e intanto spense le luci della cabina: non voleva che una di quelle zanne colpisse uno degli oblò di cristallo con la violenza con cui s’era abbattuta sulle corazze esterne. Adesso soltanto i fari di rotta, molto bassi e incassati sul davanti del veicolo, illuminavano la scena. Il mostro, incoraggiato dalla fuga di Lackland, caricò una seconda volta, proprio contro uno di essi. Lackland non osò spegnere il faro, perché sarebbe stato come restare improvvisamente cieco, ma lanciò un disperato appello per radio: — Barl! Come va con le tue reti? Se non sei pronto, dovrò prendere il mostro a cannonate, carne o non carne! — Le reti non sono ancora pronte, però se riesci ad attirare in qua la bestia ancora di qualche metro, si troverà sottovento rispetto alla «Bree», e potremo usare un altro sistema. — Benissimo. — Lackland non riusciva a immaginare quale fosse quest’altro sistema, ma finché la sua ritirata faceva comodo a Barlennan, non aveva niente da obiettare. Non gli passò per la mente, e a dire il vero non passò nemmeno per quella di Barlennan, che il metodo di lotta dei meskliniti potesse danneggiare il trattore; così continuò a tenere a bada le formidabili zanne del mostro con una serie di brusche e rapide marce indietro, che la bestia non sembrava in grado di prevenire efficacemente. Intanto Barlennan si dava da fare con i suoi mezzi. Lungo i bordi della «Bree» che stavano di fronte al mostro e al trattore erano sistemati quattro congegni somiglianti straordinariamente a dei mantici, con delle specie di tramogge sugli sfiatatoi. A ogni mantice erano addetti due marinai che a un ordine di Barlennan si misero alla manovra con regolare sistematicità. Nello stesso tempo, un terzo operatore fece funzionare la tramoggia, lasciando piovere una cascata di polvere finissima nella corrente creata dai mantici. La polvere, imbrigliata dal vento, fu spinta verso i due contendenti. A causa delle tenebre non era possibile vedere a che velocità si spostassero, ma Barlennan doveva essere un buon conoscitore delle correnti aeree, perché, dopo che i mantici ebbero soffiato per alcuni istanti, bruscamente lanciò un altro comando. I serventi alle tramogge fecero allora qualcosa agli sfiatatoi dei mantici, e subito un tonante getto di fiamma fu lanciato a ventaglio dalla «Bree», ed avvolse il mostro e il trattore in lotta. Urlando parole che non aveva mai insegnato a Barlennan, Lackland lanciò il trattore all’indietro, fuori della nube di fuoco, augurandosi che il quarzo dei suoi oblò resistesse. Il colosso, invece, pur volendo togliersi di là, non aveva evidentemente riflessi abbastanza pronti per muoversi con un’azione coordinata. Si buttò prima da una parte, poi dall’altra, in cerca di scampo. La fiamma si spense dopo qualche secondo, lasciando una gran nube di denso fumo bianco, illuminata dalla luce dei fari del trattore. Ma sia che il fulmineo getto di fuoco fosse stato sufficiente, sia che il fumo bianco fosse altrettanto letale, i riflessi del mostro apparvero sempre più disorientati. Mosse ancora pochi passi, brevi e incerti, senza meta, mentre le zampe non ce la facevano più a sostenere la sua terribile mole, e alla fine stramazzò a terra, rotolandosi su un fianco. Le zampe scalciarono ancora per un po’«in maniera spasmodica, mentre il lunghissimo collo si ritraeva e si tendeva in fuori, alternativamente, sbattendo la testa irta di zanne ora in aria e ora per terra in una frenetica agonia. All’alba, il solo movimento rimasto era uno sporadico sussulto di una zampa o della testa finché, due o tre minuti dopo il sorgere del sole, la gigantesca creatura giacque immobile per sempre. L’equipaggio della «Bree» era già sciamato a terra e si affrettava sul tratto di terreno, dove la neve s’era sciolta, per portar via quanta più carne era possibile. La mortifera nuvola bianca era stata spinta lontano dal vento, ormai, e andava sfumando definitivamente. Lackland notò con stupore tracce di polvere nera sulla nave, dov’era passata la nube. — Barl, di che razza di sostanza ti servi per fare quella nuvola di fuoco? E non hai pensato che avrebbe potuto spaccarmi i cristalli di quarzo degli oblò? Il Comandante, che era rimasto a bordo, presso la radio, rispose immediatamente: — Perdonami, Charles, ma ignoravo di che materiale fossero le tue finestre e non ho mai pensato che le nostre nubi di fiamma potessero danneggiare la tua grande macchina. Si tratta di una polvere che otteniamo da certe piante: la si trova sotto forma di grossi cristalli, che dobbiamo polverizzare minutamente, lontano dalla luce. Lackland annuì, mentre rifletteva. Quella sostanza che, accesa dalla luce, bruciava nell’idrogeno formando una grande nube bianca e lasciando macchioline nere sulla neve, non poteva essere che cloro. Il cloro si trovava evidentemente su Mesklin allo stato solido, a causa della temperatura del pianeta, e combinandosi violentemente con l’idrogeno dava origine al cloruro d’idrogeno il quale, sotto forma di polvere finissima, è bianco. Inoltre la neve di metano, evaporando durante il processo per effetto del calore, cedeva al cloro il suo idrogeno e liberava carbonio, nero. Era ben strana e interessante, per lo studioso, la vita vegetale che cresceva su quel mondo! — Non so come farmi perdonare il rischio che ho fatto correre al tuo trattore — riprese Barlennan, in vena di scuse. — Forse avrei fatto meglio a lasciarti uccidere quel mostro col tuo cannone. Hai intenzione di insegnarci ad usarlo? È studiato apposta per funzionare su questo pianeta, come la radio? Il Comandante s’interruppe, temendo di essersi spinto troppo avanti nelle sue domande, ma riteneva che valesse la pena di rischiare. Dal punto in cui si trovava, però, non riuscì a vedere, e tanto meno a interpretare, il sorriso con cui Lackland gli rispose: — No, il cannone non è stato rifatto o trasformato per adattarlo al tuo pianeta, Barl. Qui funziona ancora abbastanza bene, ma temo che non servirebbe a niente nelle tue regioni. — Tirò fuori un regolo calcolatore e dopo averlo consultato per un istante aggiunse: — Al massimo, nella tua regione polare questo cannoncino potrebbe sparare un proiettile a non più di una cinquantina di metri di distanza. Barlennan, deluso, non disse altro. Ci vollero alcuni giorni per macellare il mostro. Lackland tenne per sé il cranio, come amuleto contro eventuali furori di Rosten, poi la carovana riprese il suo lungo viaggio. Un chilometro dopo l’altro, giorno dopo giorno, il trattore e il suo rimorchio avanzavano insensibilmente verso la meta. Ogni tanto si scoprivano d’un tratto, da lontano, città abitate da inquietanti rotolatori di massi; due o tre volte raccolsero dei viveri per Lackland, lasciati dal razzo lungo il loro itinerario; spessissimo incontravano animali di enormi dimensioni, alcuni come quello ucciso dal fuoco di Barlennan, altri di mole e struttura diverse. Due esemplari giganteschi di erbivori vennero catturati con le reti e uccisi dall’equipaggio spinto dal bisogno di carne fresca con grande ammirazione di Lackland. E finalmente, a duemila chilometri circa dal punto in cui la «Bree» aveva svernato e a cinquecento o quasi a sud dell’Equatore, mentre Lackland si piegava sotto il peso di un’altra mezza gravità in più, i corsi d’acqua cominciarono tutti a convergere in direzione della loro meta. Non c’era più dubbio, ormai, che la spedizione si trovasse nello spartiacque che portava verso il grande oceano orientale. Il morale, che non era mai stato basso, si sollevò notevolmente. Anche Lackland, annoiato spesso fino alla nausea, si rianimò. Ma dall’euforia precipitò nella delusione e nell’angoscia più cupa, quando la carovana si trovò di colpo, quasi senza preavviso, sull’orlo di una scarpata: un vero e proprio precipizio verticale di almeno venti metri, che si stendeva a perdita d’occhio tanto sulla sinistra, quanto sulla destra del loro percorso. Capitolo 9 SEPARAZIONE Per alcuni interminabili istanti nessuno pronunciò una parola. Lackland e Barlennan, che avevano lavorato con tanta serietà sulle fotografie con le quali era stato possibile tracciare la mappa, erano sbalorditi. — Ma come può essere sfuggita alle macchine fotografiche? — disse finalmente Barlennan alludendo alla scarpata. — D’accordo, vista dall’altezza a cui si trovava il razzo quando furono prese le fotografie, non poteva apparire troppo elevata, ma doveva gettare per forza un’ombra molto allungata, nei minuti immediatamente prima del tramonto… — Non so cosa dirti, Barl. Si vede che le fotografie di questa zona sono state prese fra l’alba e mezzogiorno, quando non c’erano ombre visibili. Adesso, però, dobbiamo trovare assolutamente il modo di continuare la nostra spedizione. Seguì un altro silenzio, e sarebbe durato molto più a lungo del primo se bruscamente, con grande sorpresa dei due, non lo avesse rotto il Vicecomandante: — Non sarebbe opportuno che gli amici del Volatore, lassù in alto nel cielo, scoprissero per noi quanto si estende questo muragliene da una parte e dall’altra? Ci sarà un pendio più dolce dov’è possibile scendere, senza dover fare troppi giri viziosi. Non dovrebbe essere difficile per gli amici del Volatore fare nuovi rilievi, se questo strapiombo è sfuggito loro la prima volta. Barlennan tradusse questa proposta, che era stata fatta dal suo Secondo in lingua mesklinita. Lackland inarcò le sopracciglia. — A quanto pare — disse a Barlennan — il tuo amico capisce l’inglese abbastanza bene: per lo meno, abbastanza da comprendere il nostro ultimo colloquio sull’argomento. Benvenuto, dunque, nella nostra conversazione. La tua proposta è eccellente: chiamo subito la stazione su Toorey. L’operatore ai servizi radio dell’osservatorio posto sul satellite detto Toorey rispose immediatamente. Funzionava infatti un servizio di ascolto ininterrotto sulla frequenza della trasmittente principale del trattore, collegata al satellite da numerosi relè che gravitavano nello spazio entro l’anello esterno di Mesklin. Lackland ebbe l’assicurazione che un volo di rilevamento sarebbe stato fatto al più presto possibile. Quel «più presto possibile», tuttavia, implicò un gran numero di giorni di Mesklin. Nell’attesa, il terzetto tentò di escogitare altri piani, per l’eventualità che lo strapiombo non potesse essere superato a una ragionevole distanza dal punto in cui si trovava l’inquieta carovana. Lackland stava dormendo profondamente da molte ore terrestri, quando giunse la comunicazione del razzo partito dalla luna per fare i nuovi rilievi dell’orografia di quella regione di Mesklin. Fu un messaggio piuttosto laconico e molto scoraggiante. La muraglia rocciosa su cui si affacciava la spedizione cadeva a picco sul mare, a un migliaio di chilometri a nord est della loro attuale posizione, quasi esattamente sull’equatore. Nella direzione opposta si allungava per quasi duemila chilometri, diventando sempre più bassa, fino a scomparire del tutto alla latitudine di cinque gravità circa. Il suo andamento non era perfettamente rettilineo: si allontanava con una vasta curva dall’oceano a un dato punto, cioè proprio nel punto dove si trovava il trattore. Gettandosi oltre l’orlo della muraglia entro i confini della baia, due fiumi formavano due grandi cascate: una, a una cinquantina di chilometri di distanza verso sud, l’altra a centosessanta chilometri a nordest, oltre 1 ansa della muraglia. Secondo l’osservatore che stava facendo la sua relazione a Lackland, su tutta l’estensione della parete verticale non esisteva un solo tratto in cui il trattore potesse tentare la discesa. Restava forse una minima probabilità di riuscita presso una delle cascate dove i processi di erosione potevano aver scavato qualche declivio percorribile. — Ma come diavolo può essersi formata una muraglia del genere? — disse Lackland, furente. — Tremila chilometri di roccia a picco che ci bloccano la strada! Proprio a noi doveva capitare di imbatterci in un fenomeno del genere! Scommetto che non esiste un’altra muraglia come questa su tutto il pianeta! — Non ti sbilanciare troppo con le scommesse — lo avvertì il cartografo. — I nostri geologi sono andati in brodo di giuggiole, poco fa, quando ho descritto loro questa muraglia. Uno ha detto di essere sorpreso che tu non ne avessi già incontrate… Un altro ha sostenuto che più ti allontanerai dall’equatore, più frequenti diventeranno questi bastioni rocciosi… — Cioè, potrò trovarne altri, prima di arrivare all’oceano? Sempre ammesso che riusciamo a scendere giù da questo, senza romperci l’osso del collo, naturalmente… — No. Se ce la farai a superarlo, i tuoi guai sono finiti, per così dire. Potrai anzi varare la nave del tuo amico pinzuto nel fiume che scorre ai piedi della parete rocciosa. Il tuo solo problema, adesso, è di portare giù la nave. — Già — osservò Lackland ironico — un gioco da ragazzi! Grazie, Hank. Comunque può darsi che abbia bisogno di parlarti ancora, più tardi. Lackland si allontanò dall’apparecchio e si coricò sulla sua cuccetta, sforzandosi di pensare. Non aveva mai visto la «Bree» galleggiare e quindi ignorava il pescaggio dello scafo. Tuttavia, per poter galleggiare su un oceano di metano liquido, che ha una densità inferiore del cinquanta per cento a quella dell’acqua, doveva essere estremamente leggero. In più, la nave non era cava, non galleggiava cioè in virtù di una vasta massa d’aria al centro della sua struttura, come fa un bastimento d’acciaio sui mari della Terra. Il «legname» di cui era fatta la «Bree» era di per sé abbastanza leggero da galleggiare sul metano, sostenendo inoltre l’intero equipaggio e un carico molto spesso ingente. Ognuna delle zattere che formavano la nave, di conseguenza, non poteva pesare più di qualche etto, forse un chilo al massimo, in quelle regioni del pianeta. In queste condizioni lo stesso Lackland avrebbe potuto stare in piedi sul ciglio del precipizio e calare parecchie zattere alla volta. Due marinai qualsiasi sarebbero stati probabilmente in grado di sollevare la nave intera, una volta convinti a mettersi sotto quel peso. Lackland non aveva nessun’altra cima o gomena oltre a quella usata per trainare la slitta. Ma le corde non mancavano alla «Bree». E i marinai sarebbero stati senza dubbio capaci di montare qualche congegno di sollevamento per risolvere il problema, ammesso che lo volessero. Sulla Terra sarebbe stata una normale manovra marinara. Su Mesklin, però, con tutti quei pregiudizi profondamente radicati verso ogni azione che comportasse il sollevamento dei gravi, come saltare contro la legge di gravità, o lanciare un grave nello spazio, e la generale diffidenza verso qualsiasi altra azione che richiedesse comunque un dislivello dal suolo, la situazione poteva anche essere molto diversa. Il vero problema, adesso, era di sapere se i marinai di Barlennan sarebbero stati disposti a venire calati oltre l’orlo del dirupo insieme con la loro nave. Lackland allora, attivata la sua piccola trasmittente, chiamò il suo minuscolo amico: — Barl, stavo pensando a una cosa: il tuo equipaggio non potrebbe calare la nave a pezzi, una zattera per volta, grazie a cavi posti sull’orlo del precipizio, per poi ricostruire il tutto sul fondo? — E tu, come scenderesti con il trattore? — Io non scenderei affatto. C’è un grosso fiume a una cinquantina di chilometri a sud che dovrebbe essere navigabile fino al mare, se è vero quello che mi ha detto Hank Stearman. La mia proposta è di rimorchiarti fino alla cascata, aiutarti in ogni modo a calare la «Bree» oltre l’orlo del precipizio, assistere alla sua messa in acqua nel fiume e augurarti ogni fortuna e ogni bene. Tutto ciò che potremo fare per te, d’allora in poi, sarà fornirti dati precisi sul tempo e la navigazione, come avevamo già stabilito. Tu hai corde, non è vero, che possono reggere il peso di una zattera? — Sì. — E l’equipaggio? Accetterà di farsi calare nel vuoto in quel modo? Barlennan rifletté per qualche istante. Poi: — Credo di sì, Charlie. Farò salire i marinai sulle zattere, con l’ordine di tenerle staccate dalla parete di roccia. Cosi non staranno con gli occhi fissi verso il basso e non avranno il tempo di pensare al fatto di essere sospesi nel vuoto. E poi, con la sensazione di estrema leggerezza che tutti noi proviamo in queste regioni, non si pensa molto a cadere. — Lackland, che faticava a tenere un braccio teso, da quanto gli pesava, a questo punto gemette dentro di sé. — Andrà tutto bene, vedrai. Sarà meglio metterci in viaggio subito per la cascata, allora. — D’accordo. Lackland si alzò a fatica dalla cuccetta della cabina di guida per rimettere in moto il trattore. Una stanchezza immensa era scesa improvvisamente su di lui. La sua parte era quasi finita, ormai, più presto di quanto si fosse aspettato, e tutta la sua carne adesso implorava sollievo dal peso feroce che da sette mesi a quella parte lo torturava a ogni passo, a ogni gesto e in ogni istante. Il trattore voltò a destra e riprese ancora una volta la sua lenta marcia, parallelamente al corso del burrone, a duecento metri di distanza dal ciglio. Arrivarono alla cascata in una sola tappa di venti giorni di Mesklin. Sia i marinai, sia Lackland avevano cominciato a sentirla già molto tempo prima di giungervi. All’inizio una vaga vibrazione dell’aria, come un fremito, che in breve era diventato un rumore tonante e alla fine un rombo, un boato ininterrotto, d’una potenza straordinaria. Era giorno, quando arrivarono in vista della cascata e Lackland istintivamente si arrestò. Il fiume raggiungeva una larghezza di quasi un chilometro, là dove si gettava nel vuoto, e la sua corrente era liscia e piana come vetro: nessuno scoglio, nessun ostacolo sembrava infrangere il suo corso. Poi sul ciglio s’incurvava e con un semplice salto precipitava di sotto. Per l’erosione incessante la cascata era arretrata di un buon chilometro e mezzo dalla linea del ciglio e, da dove si trovavano, gli esploratori godevano una vista superba della gola entro cui scorreva il fiume. La velocità con cui il liquido cadeva faceva sollevare un’eruzione di spruzzi dal fondo. Nonostante l’atmosfera e la forza di gravità del pianeta, una nube costante di vapori ricopriva la parte più bassa della cascata. Poi questa nube svaporava a poco a poco, man mano che ci si allontanava dalla parete a picco, rivelando la superficie ribollente, vorticosa, del corso inferiore del fiume dopo il salto. La massa liquida sollevava un turbine di vento tutt’intorno, poi la corrente diventava più placida e fluiva via verso l’oceano. Il lavoro ebbe subito inizio. Mentre alcuni marinai calavano una corda come un filo a piombo lungo la parete della muraglia, per avere una misura precisa del salto, altri si misero a staccare le varie zattere che componevano la nave. Barlennan e Dondragmer andarono a cercare il punto più adatto dove iniziare le operazioni di discesa. Lo scelsero il più vicino possibile alla gola e al fiume, dal momento che, una volta calate, le varie parti avrebbero dovuto essere trascinate fin sulla riva senza l’aiuto del trattore. Poi, unendo insieme i vari alberi della nave, venne eretta un’alta impalcatura sull’orlo dello strapiombo, per avere un punto di sospensione abbastanza in fuori da evitare l’attrito e il conseguente logorio delle corde. Carrucole e corde furono infine piantate sull’impalcatura e la prima zattera messa in posizione. Alcuni minuti dopo, la zattera calava senza incidenti venti metri più sotto, ai piedi del bastione roccioso, con a bordo Dondragmer e un marinaio. Le altre zattere vennero a poco a poco portate al livello sottostante con lo stesso sistema, cosicché, alla fine, rimasero presso il burrone soltanto l’impalcatura fatta con gli alberi, Barlennan e Lackland dentro il suo carro corazzato. Quando il terrestre, pregato da Barlennan, usci dal trattore, il penultimo carico stava calando, manovrato dal basso e composto quasi esclusivamente dei materiali che erano serviti nelle operazioni precedenti. L’ultima zattera, già pronta per essere calata, era in attesa presso l’orlo, con l’apparecchio radio a bordo. Senza esitazioni Barlennan vi salì sopra, e Lackland cominciò a far scorrere l’ultima corda intorno all’ultimo albero rimasto sul ciglio del precipizio. Zattera, radio e Barlennan scomparvero sotto il ciglio. Ma la voce del mesklinita continuava a risuonare pacata e cortese nei microfoni dentro il casco di Lackland, mentre la zattera, lentissimamente, scendeva lungo la parete verso le rocce del fondo. Finalmente la voce di Barlennan avverti, con un tono evidente di sollievo: — Ecco, abbiamo toccato il fondo, Charles. Adesso aspetta il mio segnale, prima di lasciare cadere l’albero e la corda. Dobbiamo ancora sgomberare il punto. Rimasto solo, Lackland, per ingannare il tempo e pieno di simpatia per il suo piccolo amico mesklinita, tagliò un mezzo metro di corda a uno dei capi e se lo avvolse intorno alla manica dello scafandro, come ricordo. Aveva appena finito che la voce di Barlennan risuonò ancora nei microfoni: — Ecco, Charles. Abbiamo sgomberato il punto dove lascerai cadere i materiali. Lackland obbedì, e albero e corda sparirono di colpo, come risucchiati verso il basso da una forza spaventosa. Nelle due ore che occorsero all’equipaggio per ricostruire la «Bree», seguì le operazioni sullo schermo del radiotelevisore posto nell’interno del trattore. Con l’ombra di un desiderio nostalgico, quello di poter esserci anche lui a bordo, vide i fasci di zattere ricongiunte che venivano spinti nell’ampio e rapido fiume, mentre i saluti di Barlennan, di Dondragmer e di tutto l’equipaggio ronzavano nell’altoparlante. In breve, la corrente trasportò la nave abbastanza a valle dalla cascata perché potesse vederla dagli oblò del trattore. Lentamente e silenziosamente Lackland alzò il braccio in un lungo cenno di addio, poi rimase ancora a guardare la «Bree» farsi sempre più piccola, fino a quando non fu scomparsa del tutto nella sua corsa verso l’oceano lontano. Capitolo 10 IMBARCAZIONI CAVE Il fiume scorreva lento e maestoso. In un primo tempo l’ aria, sotto la pressione della massa liquida che irrompeva precipitando dall’orlo dello strapiombo, era mossa, trasformata in una discreta brezza che spirava verso il mare, tanto che Barlennan ordinò di alzare le vele. Ma in breve quell’effimero venticello cadde del tutto, lasciando la nave in balia della corrente. Ma poiché questa andava nella giusta direzione nessuno ebbe motivo di lagnarsi. E poi era una soddisfazione troppo profonda, dopo quell’interminabile e lenta spedizione sulla terraferma, navigare di nuovo. Le due rive del fiume richiamavano sempre più l’attenzione dei meskliniti, a mano a mano che il viaggio procedeva. Durante la traversata sulla terraferma, si erano abituati alla vista di quello strano tipo di vegetazione che il Volatore aveva chiamato alberi. Dapprima ne erano rimasti affascinati, anche perché questi alberi si erano rivelati fonte di uno di quei commestibili che si ripromettevano di vendere nei loro paesi. E ora si facevano sempre più numerosi, minacciando di soppiantare completamente le piante più familiari, basse, acquattate sul terreno e dai rami a tentacolo. Barlennan cominciò a pensare che un’intera colonia trapiantata in quella regione avrebbe potuto vivere benissimo con il commercio dei coni d’abete, come li aveva definiti il Volatore. Per un lungo tratto, un’ottantina di chilometri almeno, non fu avvistata nessuna forma di vita intelligente. Il fiume era pieno di pesci, ma nessuno abbastanza grosso da rappresentare un pericolo per la «Bree». Alla fine le due sponde del fiume apparvero folte di alberi, che sembravano spingersi molto addentro nell’entroterra. E Barlennan, spinto dalla curiosità, ordinò di accostare al massimo la nave a una delle rive, per osservare da vicino l’aspetto di una foresta (anche se lui, naturalmente, non avrebbe saputo come definirla). La luce arrivava ugualmente anche nel folto del bosco, perché gli alberi in alto non si allargavano a ombrello come sulla Terra; tuttavia lo spettacolo rimaneva dei più insoliti. Andando alla deriva, quasi all’ombra di quelle piante soprannaturali, molti marinai sentirono rinascere l’antico terrore atavico di avere sopra la testa oggetti solidi e accolsero con un generale senso di sollievo l’ordine del Comandante di tornare al centro del fiume. All’improvviso, gli esploratori provenienti dalle regioni di massima gravità fecero un’altra esperienza con armi del tipo dei missili. Questa volta si videro piovere addosso una raffica di lance. Sei giavellotti si staccarono silenziosamente da una sponda del fiume e vennero a conficcarsi vibrando sul ponte della «Bree». Due aste, dopo essere scivolate sulle corazze protettive di alcuni marinai, rimbalzarono rumorosamente sul ponte, prima di fermarsi. I marinai che erano stati colpiti fecero istintivamente un tuffo nel fiume, finendo ad alcuni metri di distanza dalla nave. Ritornarono a bordo subito, a nuoto, e si arrampicarono sul ponte senza l’aiuto di nessuno, perché gli occhi di tutti erano puntati verso la riva da cui era partita la misteriosa aggressione. Il timoniere spinse ancor più la nave in mezzo al fiume. — Sarei curioso di sapere chi ha lanciato quelle aste — disse Barlennan, quasi tra sé — e se hanno usato un meccanismo simile a quello del Volatore. Non ho sentito però lo stesso frastuono. Berblannen staccò una delle lance dal ponte e la scagliò, come per fare una prova, nella direzione da cui era venuta. Poiché era la prima volta in vita sua che si dedicava a un esercizio del genere, scagliò la lancia come potrebbe fare un bambino con un bastone, mandandola a finire, dopo una serie di capriole nell’aria, di nuovo tra gli alberi del bosco. Barlennan aveva trovato la risposta al suo quesito: gli invisibili aggressori non avevano bisogno di macchine per lanciare i loro missili. Un resoconto dell’incidente partì verso Lackland, in alto nel cielo, sulla lontana Toorey. Per più di centocinquanta chilometri la foresta continuava ad addensarsi sulle due rive, che per altro si facevano sempre più distanti. La «Bree», tuttavia, si manteneva costantemente al centro del largo fiume. Pochi giorni dopo il lancio dei giavellotti, una piccola radura apparve sulla riva sinistra. Su questo spiazzo s’intravvedevano oggetti che meritavano una più accurata osservazione. Barlennan decise di correre il rischio e ordinò di accostare. Gli oggetti assomigliavano a piccoli alberi, ma erano più bassi, e più tozzi. Se si fosse trovato più in alto rispetto alla superficie del fiume, Barlennan avrebbe potuto notare delle piccole aperture in quella specie di tronchi, proprio al di sopra dei livello del terreno, che gli avrebbero fatto chiaramente capire la loro funzione. Invece ci volle parecchio prima che qualcuno a bordo della «Bree» si rendesse conto che i «tronchi» erano canoe e che gli altri misteriosi oggetti erano abitazioni. Quando la nave si trovò a passare proprio davanti al villaggio, uno sciame di corpi neri o rossi corse sulla spiaggia, dimostrando che le supposizioni del terrestre corrispondevano al vero. Gli oggetti che assomigliavano a tronchi d’albero furono spinti in acqua, e su ognuno presero posto una decina almeno di quegli esseri che all’apparenza appartenevano alla stessa identica razza di Barlennan e dei suoi marinai, cioè erano simili nella forma, nelle dimensioni e nel colore. Inoltre, avvicinandosi alla «Bree», emettevano ululati laceranti, esattamente uguali a quelli che Lackland aveva udito lanciare spesso dai suoi piccoli amici. Le canoe dovevano essere molto profonde, perché ne spuntava soltanto la testa degli indigeni. Lackland suppose che la decina di individui che erano saliti in ciascuna canoa si fossero disposti a spina di pesce, con le pagaie manovrate dalle coppie anteriori di braccia armate di pinze. Vennero preparati i lanciafiamme della «Bree», e i marinai addetti si tennero accanto ai pezzi, in attesa di ordini, ma Barlennan dubitò che si potessero rivelare utili, data la situazione. Krendoranic, l’ufficiale incaricato delle munizioni, stava lavorando furiosamente intorno a una delle sue casse di scorte. Ma in realtà l’intera organizzazione di difesa della nave era stata sconvolta dalla totale mancanza di vento, un fenomeno che non si verificava quasi mai in mare aperto. E ogni residua speranza di servirsi dei lanciafiamme scomparve, quando la flottiglia delle canoe si aprì a ventaglio, per circondare la «Bree». Giunte a due o tre metri dalla nave, le canoe si fermarono, e per un paio di minuti regnò sul fiume un grande silenzio. Con grande disappunto di Lackland in quel momento il sole tramontò, e la scena sul fiume divenne del tutto invisibile. Strani suoni vocali gli rivelarono tuttavia che uno scambio d’idee doveva avere luogo fra la «Bree» e gli esseri delle canoe, sebbene Lackland avesse l’impressione, dalla lentezza e dal tono indeciso delle voci, che i due gruppi non parlassero la stessa lingua. All’alba, tuttavia, Lackland poté notare che la situazione era cambiata notevolmente: la «Bree», per esempio, era ferma proprio davanti al villaggio e vicinissima alla sponda. Mentre se fosse stata trasportata dalla corrente, durante la notte, avrebbe dovuto trovarsi parecchio più a valle. Lackland stava per chiedere a Barlennan perché volesse correre un simile rischio, quando capì che il mesklinita era rimasto sorpreso almeno quanto lui dalla novità della situazione. Con aria leggermente seccata, Lackland si rivolse a uno degli uomini che sedevano con lui davanti allo schermo televisivo. — Barl si è ficcato nei guai — disse. — So che ha cervello, ma con cinquantamila chilometri ancora da percorrere, non mi piace vederlo in trappola appena dopo i primi cento. La «Bree» sembrava imprigionata su tre lati dentro una specie di gabbia sommersa, fatta di pali piantati sul fondo del fiume. Era rimasto libero solo il lato a monte del fiume, e su quello si erano disposte in file serrate tutte le canoe. Era chiaro che quei selvaggi volevano la nave e ora la stavano tranquillamente catturando, sotto gli occhi del Comandante e dei suoi marinai. Barlennan, dopo avere ordinato all’equipaggio di radunarsi a prua, strisciò da solo verso la poppa, davanti alla quale si erano raccolte le canoe. Nell’andata si fermò un attimo davanti agli scomparti delle provviste e tirò fuori un grosso pezzo di carne, che portò con sé fino all’estremità della poppa, bene in vista dei suoi silenziosi avversari. Dopo qualche istante una canoa si avvicinò cautamente e un indigeno si protese verso la poppa e il pezzo di carne. Barlennan glielo lanciò. La carne fu assaggiata e destò un fitto brusio di commenti. Quindi, quello che aveva l’aria di essere il capo staccò per sé una larga porzione di carne, distribuendo il resto tra gli altri, e cominciò a mangiare con particolare attenzione. Appena ebbe finito, impartì un ordine che sembrava un latrato: immediatamente, metà degli equipaggi si avvicinarono con le loro canoe e balzarono sulla nave come tante cavallette. Impreparati ad attacchi semiaerei come quello, i marinai della «Bree» furono colti di sorpresa. La nave venne catturata in meno di cinque secondi. Un gruppetto indigeno comandato dal capo in persona cominciò a esaminare le scorte alimentari e la loro soddisfazione ben presto apparve evidente. Barlennan assistette impotente allo spettacolo penoso del trasbordo di tutte le riserve alimentari dalla nave alle canoe. Fu allora che si ricordò di qualcuno, il cui consiglio gli era sempre stato prezioso. — Charles! — chiamò. — Hai assistito per caso a quello che ci sta capitando? Lackland, divertito e preoccupato nello stesso tempo, si affrettò a rispondere: — Sì, Barl, ho visto tutto fin dal principio. Al suono rimbombante di quella voce incredibilmente extramesklinita, che usciva dalla fila di apparecchi radio allineati sul ponte, il capo indigeno ebbe un sussulto e si guardò attorno in cerca della provenienza. Uno degli indigeni che si era trovato vicino alla radio da cui aveva parlato Lackland gliel’indicò. Tuttavia, dopo aver cercato di forzare la misteriosa cassetta con coltello e lancia il capo parve respingere l’improbabile supposizione. Lackland capì che era arrivato il momento di parlare di nuovo: — Credi che ci sia qualche probabilità di atterrirli con la radio, eh, Barl? Questa volta la testa del capo si trovava a quattro o cinque centimetri dalla radio, e Lackland non ne aveva certo diminuito la potenza di trasmissione. Non ci potevano essere più dubbi sulla provenienza di quella voce rimbombante. Il capo cominciò a strisciar via dall’oggetto parlante. Prima ancora che Barlennan avesse tempo di rispondere, Dondragmer si avvicinò a un mucchio di carne che gli indigeni non avevano ancora trasportato sulle loro canoe, ne scelse un pezzo particolarmente appetitoso e andò a deporlo davanti alla radio con gesti molto deferenti e umili. Col suo atto aveva rischiato di vedersi piantare in corpo un paio di coltellacci, ma gli indigeni di guardia alla carne erano troppo sbalorditi dagli avvenimenti per badare a quello che faceva. Lackland, ammirando la prontezza con cui il Secondo aveva capito i suoi propositi, continuò come aveva cominciato: ridusse il volume nella speranza che le sue nuove parole sembrassero meno irose agli esseri delle canoe e con voce cordiale lodò l’iniziativa di Dondragmer. In quel momento il capo, chiamando a raccolta tutto il suo coraggio, si lanciò bruscamente col giavellotto che aveva tra le pinze contro la più vicina cassetta radio. Lackland rimase silenzioso, mentre i marinai assecondavano il gioco escogitato dal Volatore, girandosi e coprendosi gli organi visivi con le pinze incrociate, come fossero atterriti dal sacrilegio commesso. Dopo qualche istante, vedendo che non succedeva niente di nuovo, Barlennan offrì alla falsa divinità un altro pezzo di carne facendo vedere nello stesso tempo con ampi gesti che implorava pietà per la vita dell’incauto selvaggio. Il popolo del fiume era chiaramente impressionato, tanto che il capo si allontanò dagli apparecchi, e, chiamando intorno a sé i suoi consiglieri, dette il via a complesse consultazioni. Infine, uno dei consiglieri, evidentemente per saggiare il terreno, prese un terzo pezzo di carne e lo offrì alla radio più vicina. Lackland stava per esprimere la sua cordiale gratitudine, quando la voce di Dondragmer lo avvertì: — Rifiuta! Senza capire il perché, Lackland alzò il volume ed emise un ruggito veramente pauroso il donatore fece un salto indietro in preda al terrore più genuino. Ma poi, dietro un ordine impartitogli dal suo capo, strisciò ancora fino alla radio, ritirò il pezzo di carne che tanto aveva offeso la divinità, ne scelse un altro e lo offrì alla cassetta. — Ora va bene — disse Dondragmer, sempre per farsi intendere a Lackland. — Perché, prima cosa c’era che non andava? — Non avrei offerto quel pezzo di carne al mio peggior nemico — rispose il Secondo. — Continuo a trovare una straordinaria rassomiglianza tra la mia razza e la vostra nelle situazioni più inattese — disse Lackland. — Ma ecco che il tramonto oscura tutto. La notte passò tra ininterrotte discussioni tra il capo e i suoi consiglieri. All’alba il capo era giunto a una decisione; per prima cosa, allontanandosi un po’«dai suoi seguaci, depose le armi sul ponte. Poi, mentre i primi obliqui raggi del sole sfioravano la nave, si spinse verso Barlennan, facendo segno alle guardie che lo custodivano di allontanarsi. Il Comandante, che aveva già capito le sue intenzioni, attese con molta calma. Quando gli fu davanti, dopo una breve pausa significativa, l’altro cominciò a parlare. Benché il suo linguaggio fosse del tutto incomprensibile, era chiaro che voleva una radio. E Barlennan, dimostrando più coraggio che accortezza — o almeno così sembrò a ‘ Lackland — rispose nel modo più breve e asciutto; una sola parola e un gesto che evidentemente significavano un «no! «chiaro e tondo. Ma il capo, davanti a un rifiuto così netto, non assunse affatto un atteggiamento battagliero. Anzi, impartì rapido alcuni ordini ai suoi sudditi che, deposte le armi, cominciarono a riportare le vettovaglie dalle canoe sul ponte della «Bree». Se la libertà non era un prezzo sufficiente per una di quelle cassette magiche, ebbene, il capo dimostrava di voler pagare ancora di più. Quando circa la metà delle vettovaglie razziate fu restituita, il capo rinnovò la sua domanda. Che fu respinta, come prima. Con un gesto incredibilmente umano di rassegnazione, l’indigeno ordinò ai suoi di restituire anche il resto. Lackland cominciò a impensierirsi: — E ora che cosa farà quando rifiuterai ancora, Barl? — Non lo so — rispose il mesklinita. — Se siamo fortunati, il capo può impegnarsi fino a offrire cose di sua proprietà, mandate a prendere apposta nel villaggio. Ma non sempre la fortuna arriva a tanto. Se la radio fosse meno importante, gliela darei anche in questo momento. Quindi, mentre il capo degli indigeni lo guardava con una specie di assorta estasi. Barlennan chiamò alcuni marinai e dette loro degli ordini. Muovendosi con grande circospezione e senza mai toccare la radio, i marinai prepararono un’imbracatura di corda e, rimossa a prudente distanza con dei pennoni la cassetta della radio, la spinsero fin dentro l’imbracatura. Poi uno dei manici di corda fu dato rispettosamente a Barlennan, che a sua volta, fatto cenno al capo indigeno di avvicinarsi, gli porse la maniglia con l’aria di offrirgli ciò che di più prezioso e delicato poteva esistere su Mesklin. Subito, i consiglieri del capo vennero a prendere gli altri tiranti. Lentamente, con estrema cautela, il gruppetto di indigeni trascinò la radio fin sull’orlo estremo della «Bree». La canoa del capo, scivolando lieve, venne ad attraccare presso la nave, proprio sotto la radio. Barlennan studiò quell’imbarcazione cava con diffidenza: lui aveva sempre navigato su zattere e pontoni piatti. Ma quando vide che la pesante cassetta della radio, calata proprio nella cavità che gli ispirava tanta sfiducia, non disturbava affatto la stabilità della canoa, che affondò solo di un paio di centimetri nell’acqua, Barlennan cambiò idea e si disse che il possesso di una di quelle canoe poteva essere una cosa interessante. Mentre il capo indigeno e tre dei suoi aiutanti seguivano la radio nella canoa, Barlennan si avvicinò; loro attesero, chiedendosi che cosa potesse volere. Il mesklinita lo sapeva benissimo, ma non era sicuro che il suo tentativo riuscisse. D’altra parte, la sua razza aveva un modo di dire che corrispondeva a un certo proverbio conosciuto, in un modo o nell’altro, in tutte le lingue della Terra: «Chi non risica non rosica». E Barlennan era un tipo pratico, senza troppi scrupoli, e soprattutto non era un vigliacco. Con i segni del più grande rispetto toccò la radio, sporgendosi attraverso i due centimetri di distanza tra il bordo della «Bree» e la canoa, sopra la superficie del fiume. E disse: — Charles, voglio avere questa minuscola imbarcazione, a costo di rubarla. Quando avrò finito di parlare, ti prego di rispondermi, anche una frase senza senso. Voglio dare a questa gente l’idea che la barca che ha trasportato a riva la radio è troppo cambiata dopo l’onore di un servizio cosi elevato, per continuare ad essere usata come prima, e perciò deve occupare il posto della radio sul ponte della mia nave. Chiaro? — Mi hanno insegnato, da piccolo, a disapprovare gli imbrogli, ma ammiro il tuo coraggio, Barl! Cerca di farcela, ma, mi raccomando, non esagerare troppo, quando si tratta della buona fede altrui! Barlennan si mise a esaminare la canoa con grande attenzione, e dovette costatare che galleggiava alla perfezione. Dopo di che, fece segno a un’altra canoa, che si stava avvicinando sul filo della corrente, di tenersi a debita distanza e altrettanto fece capire ad alcuni indigeni che si trovavano ancora sul ponte della «Bree». Poi afferrò una delle lance deposte dai consiglieri e fece intendere che nessuno doveva avvicinarsi alla canoa più della lunghezza della lancia. Quindi, dopo aver misurato la canoa stessa in lunghezza di lancia, portò l’arma nel punto dov’era stata la radio e ostentatamente sgomberò una superficie sufficiente a contenere la canoa. Dietro suo ordine, alcuni marinai premurosamente scostarono le altre radio, per far posto alla sua nuova proprietà. Il calare del sole pose fine alle sue esibizioni. Ma gli indigeni nella canoa non aspettarono l’alba per tornare a riva. Quando il sole ricomparve, la canoa con la radio era già presso la sponda. Barlennan la osservava con ansia. Molte altre canoe erano già a terra e ben poche sostavano ancora intorno alla «Bree». Altri indigeni intanto erano venuti sulla riva a guardare, ma con grande soddisfazione di Barlennan si tenevano tutti a rispettosa distanza dalla canoa con la radio. Era chiaro che le sue mosse avevano fatto impressione. Il capo e i suoi sudditi scaricarono con estrema cautela la magica cassetta, mentre l’intera tribù restava ferma a una distanza molto maggiore della lunghezza di lancia che Barlennan esigeva. Quando la radio fu portata a terra, la folla fece ala, riverente, e poi scomparve, dietro di essa. Per qualche minuto la riva rimase quasi deserta, senza nessuna attività visibile in corso. Barlennan sarebbe potuto partire, ora che più nessuno si occupava della «Bree» e del suo carico. Ma il Comandante aspettava con gli occhi fissi sulla riva. E finalmente una lunga fila di corpi neri e rossi apparve sulla spiaggia. Uno di questi si avvicinò alla canoa, ma non era il capo, e allora Barlennan lanciò un lungo ululato di avviso. L’indigeno si fermò e seguirono numerosi richiami modulati, particolarmente acuti e laceranti. Qualche istante dopo il capo apparve e si diresse senza esitare verso la canoa. Appena vi fu entrato, l’imbarcazione venne spinta in acqua da due di quelli che lo avevano aiutato a trasportare la radio e puntò direttamente verso la «Bree». Un’altra canoa la seguiva a debita distanza. Appena la piccola imbarcazione arrivò sotto la nave, Barlennan dette ordine ai marinai di issarla a bordo e di metterla là dove era stata la radio fino a poco prima. Intanto il capo si trasferì nell’altra canoa, che fece subito ritorno a riva. Il sole tramontò proprio nell’istante in cui il capo sbarcava e si allontanava verso il villaggio. — Hai vinto, Barl! — non poté fare a meno di gridare Lackland. — Salpiamo immediatamente — disse pronto Barlennan. Capitolo 11 NEL CUORE DELL’URAGANO La «Bree» scese nelle acque dell’oceano orientale così gradualmente che nessuno avrebbe potuto dire quando era avvenuto il passaggio. La forza del vento era cresciuta ogni giorno di più, tanto da permettere alla nave l’uso delle vele che di solito venivano spiegate solo in alto mare. Il fiume intanto continuava ad allargarsi, fino a quando le rive non diventarono completamente invisibili. Era sempre «acqua dolce», nel senso che mancava ancora quella brulicante attività di forme di vita che tingevano praticamente tutti gli oceani di diversi colori e contribuivano a dare al pianeta quello stranissimo aspetto visto dallo spazio, ma il sapore del mare si cominciava a sentire, come i marinai potevano costatare con loro grande soddisfazione. La loro rotta proseguiva verso est; a sud la strada era sbarrata da una lunga penisola, secondo le indicazioni dei Volatori. Il tempo era buono, ma se appena ci fosse stato un minimo segno di cambiamento, non sarebbero mancati gli avvertimenti da parte di quegli strani esseri, che seguivano così attentamente il loro viaggio. La nave aveva ancora grandi scorte di viveri, sufficienti per arrivare nelle regioni pescose dei mari profondi. L’equipaggio si sentiva soddisfatto. Anche il comandante era molto contento. Lackland gli aveva spiegato perché un battello dall’interno cavo come la canoa potesse portare un peso tanto maggiore in rapporto alle sue dimensioni, di quanto non potesse fare una nave piatta. È già aveva in mente di costruire una nave grande almeno come la «Bree» basata sugli stessi principi della canoa, capace in un solo viaggio di fare un carico dieci volte superiore. Dondragmer, invece, si mostrava più scettico. Sentiva che doveva pur esserci una ragione se la loro gente non usava quel tipo d’imbarcazione. Finché un giorno gli venne un’idea. — Vedrai come affondano, queste imbarcazioni cave, appena ricomincerà una gravità decente! — disse al Comandante. — Questo genere di barche può andare bene per le popolazioni che vivono presso gli Orli del Mondo, ma nelle regioni dove le cose sono normali ci vuole una solida zattera piatta, come la «Bree»! — Il Volatore dice che non è vero — ribatté Barlennan. — Sai anche tu che la «Bree» non galleggia meglio presso l’Orlo di quanto non le succeda nei nostri mari! Secondo il Volatore, ciò avviene perché anche il metano pesa meno, presso gli Orli. E il suo punto di vista mi sembra convincente. Dondragmer non rispose, ma si limitò a guardare i rozzi pesi e contrappesi che costituivano uno dei principali strumenti di navigazione della «Bree». Appena quei pesi avessero cominciato a scendere, ne era certo, sarebbe accaduto qualcosa che né il Comandante né il lontano Volatore su Toorey avevano previsto. Lui stesso non sapeva cosa, ma era sicuro che sarebbe successo. La canoa, ad ogni modo, continuava a galleggiare, a rimorchio della «Bree», nonostante l’aumento della gravità. Non stava cosi a galla come avrebbe fatto sui mari della Terra, perché il metano ha una densità corrispondente a circa la metà di quella dell’acqua, e perciò dieci centimetri del suo scafo erano invisibili sotto la superficie. Ma gli altri dieci centimetri che navigavano in emersione con il passare dei giorni non si sommersero lentamente fino a sparire, come il Secondo aveva quasi l’aria di sperare. La bilancia a molla cominciava a indicare un allontanamento appena percettibile della posizione zero — era stata costruita, naturalmente, per essere usata dove il peso era centinaia di volte quello normale sulla Terra — quando la monotonia della navigazione fu interrotta. La gravità, nel punto in cui erano, equivaleva a circa 7 G terrestri. La consueta chiamata da Toorey giunse un po’«in ritardo rispetto alle precedenti, e questa volta alla radio non era Lackland che parlava, ma un meteorologo che i meskliniti avevano imparato a conoscere molto bene. — Barl — cominciò lo scienziato senza preamboli — non so in base a quali criteri tu giudichi pericolosa una tempesta, ma pare che se ne stia avvicinando una sulla tua rotta, che non me la sentirei di affrontare con una zattera di dodici o tredici metri come la tua nave. Si tratta di un ciclone violentissimo, con una forza di vento eccezionale anche per un pianeta come Mesklin, direi. Nei milleseicento chilometri di strada lungo cui l’ho seguito finora, ha strappato dal fondo marino e portato alla superficie di tutto, lasciando una striscia di colori contrastanti sul mare. — Allora sarà proprio meglio non incontrarlo — rispose Barlennan. — Come devo fare per togliermi dalla sua strada? — Questo è il guaio! Non sono ancora certo della sua direzione. Il ciclone è ancora molto lontano da dove sei adesso, e non vorrei che dovesse tagliare la tua rotta proprio quando ti troverai nel punto meno favorevole. Prima di incontrarlo, devi attraversare altre due tempeste normali, che modificheranno la tua rotta e forse anche quella del ciclone. Te l’ho voluto dire in anticipo perché c’è un gruppo di isole molto grandi, ottocento chilometri a sudovest, verso cui potresti dirigerti. La bufera si abbatterà anche su quelle isole, ma lì ci sono moltissimi porti ben riparati, dove potresti aspettare con la tua nave che il pericolo sia passato. — Farò in tempo a raggiungere le isole? Perché altrimenti preferisco affrontare il ciclone in alto mare, piuttosto che nelle vicinanze di una qualunque terra. — Con la vostra velocità attuale avrai tutto il tempo di arrivare a quell’arcipelago, e anche di trovare il porto più conveniente. — Benissimo, allora. Qual è la mia posizione rispetto al sud? Pur essendo impossibile vedere la nave con il telescopio, a causa della densissima atmosfera, gli uomini sul satellite potevano seguirla comodamente sugli schermi televisivi, per cui non fu difficile al meteorologo fornire a Barlennan i dati di cui aveva bisogno. Le vele vennero quindi orientate in base alle indicazioni ricevute, e la «Bree» si mosse lungo la sua nuova rotta. La nave si trovava a meno di centocinquanta chilometri dalle isole, quando un fatto nuovo venne a distogliere l’equipaggio dal pensiero del ciclone imminente. Il colore del mare era cambiato ancora una volta, ma di questo nessuno si era preoccupato, data l’abitudine dell’equipaggio a navigare su acque ora azzurre e ora rosse. Fu nel cielo che si verificò il nuovo evento. Davanti alla «Bree», ma a una grandissima distanza e procedendo con uno strano moto ondeggiante, su e giù, quanto mai insolito per un mesklinita, ma straordinariamente familiare agli occhi di un essere umano, si vedeva una macchiolina nera. Il primo marinaio a cui capitò di avvistarla, lanciò il solito ululato di sorpresa e di avvertimento, che stupì gli osservatori umani su Toorey, ma non fu loro d’aiuto. Tutto ciò che gli uomini poterono vedere, sugli schermi televisivi, fu che l’equipaggio della «Bree», con la parte anteriore del corpo di bruco incurvata verso l’alto, era intento a osservare ansiosamente il cielo. — Che cosa c’è, Barl? — chiese pressante Lackland. — Non lo so. Per un istante mi è sembrato che fosse il vostro razzo venuto per aiutarci a trovare le isole, ma è più piccolo e di forma assai diversa. — Allora, è qualcosa che vola? — Sì, ma senza fare alcun rumore, come il vostro razzo. Si direbbe che la cosa sia trasportata dal vento, se non che si muove troppo regolarmente e uniformemente, e per di più nella direzione opposta a quella del vento. Non so come descriverla. È più larga che lunga, una croce di un albero con un’antenna è l’immagine più somigliante che mi riesce di trovare. — Cerca di inclinare verso l’alto uno degli apparecchi radio, per farla vedere anche a noi. — Adesso proviamo. Lackland chiamò per telefono uno dei biologi: — Lance — gli disse — pare che Barlennan si sia imbattuto in una specie di animale volante. Non vuoi venire qua, davanti ai teleschermi, per dirci di che bestia si tratta? — Vengo subito. Il biologo arrivò ai teleschermi prima che i marinai fossero riusciti a dare l’esatta inclinazione alla loro radio, e sedette in una Poltrona senza fare domande. Si sentì di nuovo la voce di Barlennan: —Sta passando e ripassando sopra la nave, ora in linea retta, ora in cerchio. Ogni volta che tornava indietro s’inclina, ma non rivelava altri cambiamenti. Sembra che ci sia un corpo, Piuttosto piccolo, là dove le due aste si incontrano… Proseguì con la descrizione, ma l’oggetto era evidentemente troppo estraneo alle sue esperienze normali, perché a Barlennan fosse possibile trovare paragoni adeguati in una lingua di cui aveva una padronanza relativa. — Vedo adesso che ci sono delle aste più piccole messe di traverso alle due Principali, e quella che si direbbe una minuscola vela tesa fra di esse. Ecco, sta tornando verso di noi, bassissimo— credo che questa volta riuscirete a vederlo anche voi… . Uno dei tecnici accorsi davanti ai telescschermi si preparò a fotografare i1 misterioso oggetto volante con una fotomitragliatrice. Tutti potere vedere con sufficiente chiarezza L’oggetto non era un animale. Aveva un corpo — una fusoliera, come mentalmente la definirono subito gli esseri umani — di un metro circa di lunghezza, più o meno la metà della canoa che Barlennan si era procurato. Un’asta più sottile, posta un metro e mezzo più indietro, aveva come dei piani mobili a un’estremità. Le ali avevano un’estensione totale di oltre sei metri e la loro struttura, formata da una singola asta principale su cui si innestavano numerose costole, era facilmente visibile sotto il tessuto quasi trasparente che le ricopriva. — Ma qual è la sua forza di propulsione? — chiese a un tratto uno degli uomini nell’osservatorio sulla luna. — Non si vedono né eliche né ugelli di reattori, e Barlennan ha detto che non fa nessun rumore. — È una specie di aliante — disse uno dei meteorologi. — Un apparecchio per il volo a vela, pilotato da qualche creatura capace, ancora più di uno dei nostri gabbiani, di sfruttare le correnti ascensionali che si alzano dalla parte anteriore delle ondate. L’apparecchio potrebbe facilmente ospitare due creature delle dimensioni di Barlennan, e restarsene in aria fino a quando gli esseri che lo guidano non dovessero scendere per mangiare o per dormire. Intanto l’equipaggio della «Bree» diventava sempre più ansioso. L’assoluto silenzio della macchina volante e l’impossibilità di vedere chi o che cosa vi fosse dentro preoccupavano i marinai. A nessuno piace sapersi osservato da chi non si lascia vedere. L’aliante non dimostrava alcuna intenzione ostile, ma consapevoli della propria inferiorità in caso di attacchi aerei, Barlennan e i suoi non si sentivano affatto sicuri. In quel momento, il sole tramontò. Nessuno avrebbe saputo dire se, quando si levò di nuovo, la scomparsa del veicolo fosse un sollievo o una nuova fonte di preoccupazioni. Il vento soffiava con accresciuta violenza, quasi direttamente contro la «Bree», da nordest; le onde da esso sollevate erano ancora lontane. Per la prima volta Barlennan osservò un inconveniente nella canoa: il mare era rotto da onde brevi e frequenti e il metano che penetrava nell’interno della canoa vi restava accumulato. Il comandante fu costretto, prima della fine della giornata, a far issare a bordo la minuscola imbarcazione e a dare ordine a due marinai di svuotarla: manovra per la quale a bordo non disponevano né di strumenti, né di esperienza. Passarono alcuni giorni, e il velivolo non tornava a farsi vedere. L’alta nuvola di vapori si faceva sempre più densa e più nera, finché non fu che una grave coltre di nubi bassissime sul mare, a non più di quindici metri dal pelo del metano. Barlennan seppe dagli uomini di Toorey che quello non era tempo indicato per nessuna macchina volante e tolse la vedetta incaricata fino a quel momento di esplorare il cielo in attesa dell’aliante. Ma tanto Barlennan quanto gli esseri umani non smisero di chiedersi come avesse fatto l’aliante a navigare sulla via del ritorno in una notte così nuvolosa, senza stelle su cui orientare la rotta. La prima isola che fu avvistata era molto alta sul mare, con una vetta nascosta dalla coltre di nubi. Il lato di fronte era quello sottovento, e Barlennan, dopo avere studiato la mappa dell’arcipelago tracciata in base alle descrizioni che gli avevano dato i terrestri, continuò lungo la stessa rotta. Come si aspettava, una seconda isola apparve a prora prima ancora che l’altra scomparisse alla vista, e il Comandante deviò leggermente la direzione per costeggiarla sottovento. Da quel lato la riva, seppe dagli osservatori sul satellite, appariva molto accidentata e frastagliata, ricca quindi di buoni porti. Anche quell’isola appariva molto alta. Non soltanto con le cime delle sue montagne toccava le nubi, ma opponeva un solido sbarramento alla forza del vento, come i marinai poterono costatare quando la nave si trovò a passare dietro il riparo di quell’alto bastione di roccia. La linea costiera era spezzata da numerosi fiordi, alcuni dei quali penetravano profondamente nell’interno dell’isola. Il primo fiordo in cui la nave si addentrò, curvava a uncino a meno di due chilometri dall’oceano, per poi allargarsi in un vero e proprio lago quasi perfettamente circolare, del diametro di un centinaio di metri circa. Intorno, muraglie di roccia si elevavano fin dentro i vapori stagnanti, tranne nei punti dove il fiordo sboccava nel lago e dove, poco lontano, un piccolo immissario proveniente dall’interno si gettava nel lago. L’unica spiaggia si stendeva tra le due foci. C’era tutto il tempo per mettere al sicuro la nave e le scorte: la massa di nubi sovrastante era quella della seconda tempesta, e non era ancora prossimo il ciclone contro cui il meteorologo aveva messo in guardia Barlennan. E infatti, tre o quattro giorni dopo l’arrivo della «Bree» nel laghetto, il tempo parve mettersi nuovamente al bello, benché il vento continuasse ad aumentare di violenza. Barlennan poté vedere che il «porto» in cui si erano rifugiati era in realtà il fondo di una valle a forma di coppa, le cui pareti non erano più alte di trenta metri, e nemmeno molto ripide. Arrampicandosi per qualche metro sulle pareti rocciose, si poteva guardare molto lontano verso l’interno, lungo il corridoio scavato dal piccolo fiume. Mentre si dedicava a questo esercizio, dopo il ritorno del bel tempo, Barlennan fece una scoperta piuttosto sconcertante: conchiglie marine, alghe e scheletri di grossi animali subacquei erano sparsi in grande quantità sulla vegetazione di tipo terrestre che ricopriva le pendici del bastione roccioso. Quello spettacolo continuava uniformemente intorno alla valle fino a un’altezza di una decina di metri sul livello del mare. Buona parte dei resti erano antichi, ridotti quasi in polvere, semisepolti, e potevano essere spiegati con i mutamenti stagionali del livello del mare; altri, però, erano chiaramente recenti. La conclusione da trarre era evidente: in certe occasioni il mare saliva ben oltre il suo livello attuale, e quindi c’erano molte probabilità che la «Bree» non fosse affatto al sicuro come credeva il suo equipaggio. Barlennan stava riflettendo sull’opportunità di rimorchiare la nave a monte del fiumicello fin dove fosse stato possibile, quando dovette costatare l’improvvisa violenza con cui i cicloni esplodevano in quella parte del suo pianeta. Di colpo, l’acqua del lago retrocesse rapidissima, lasciando la «Bree» in secca a una ventina di metri dalla riva. Un istante dopo il vento, spostandosi lungo un arco di novanta gradi, crebbe di forza al punto che i marinai che si trovavano a bordo dovettero attaccarsi alle bitte del ponte per non essere spazzati via, e quelli scesi a terra alla vegetazione più vicina. La nave poté tuttavia essere messa in salvo e legata saldamente alla terraferma, quando già minacciava di essere sollevata e trascinata via dalla violenza di quel vento terribile. La pioggia, o meglio il getto di spruzzi che giungeva anche dal mare, dall’altra parte dell’isola, sferzava tutto con lunghe raffiche, ciascuna della durata di parecchi minuti. Poi spruzzi e vento cessarono di colpo, come per incanto. Il nucleo del ciclone al livello del mare doveva avere un diametro di cinque chilometri e viaggiava a una velocità di almeno centoventi chilometri orari. La caduta del vento sull’isola non poteva essere che momentanea: significava che il centro ciclonico aveva raggiunto la valletta dove si trovava la «Bree». Quella era anche la zona di bassa pressione, e nell’istante in cui raggiunse il mare all’imboccatura del fiordo, arrivò l’ondata. Un’ondata immane, che aumentava di dimensioni e di velocità via via che avanzava, esplose dentro la valle come un getto d’acqua lanciato da una pompa. Fece il giro vorticoso delle pareti di roccia, strappando via la «Bree» dagli ormeggi fin dall’inizio, e poi si sollevò sempre di più, sempre più su, mentre la nave veniva risucchiata verso il centro del mulinello, e continuò ancora ad alzarsi di cinque, sette, dieci metri, prima che una nuova raffica di vento si abbattesse sull’isola. Per quanto duro fosse il legname dell’alberatura, tutti gli alberi della «Bree» erano stati spezzati da tempo. Due marinai erano scomparsi. La nuova raffica di vento afferrò la nave senza più alberi e la scagliò verso l’orlo del vortice: come un sughero, cui somigliava sia in dimensioni, che per ingovernabilità, la nave schizzò via lungo la colonna liquida che risaliva il corso del piccolo fiume verso l’interno dell’isola. Poi, quando la pressione aumentò ancora di più, l’ondata di marea rifluì con la stessa rapidità con cui era sorta, salvo la parte su cui galleggiava la «Bree» che imboccò a ritroso il corso del piccolo fiume. E ciò richiedeva tempo. Se la luce del giorno fosse durata, Barlennan avrebbe forse potuto riportare al riparo la sua nave, anche in quelle drammatiche condizioni, giù lungo il fiume, finché la «Bree» riusciva a tenersi a galla. Ma il sole scelse proprio quel momento per tramontare, e nelle tenebre la nave di Barlennan naufragò. La colonna liquida continuò a defluire, e quando il sole ricomparve, illuminò una sparsa serie di zattere, alcune ancora congiunte, ma lontane una ventina di metri da un fiume troppo stretto e con troppo poca acqua, per poterne tenere a galla anche una sola. Capitolo 12 I CAVALIERI DEL VENTO Da Toorey avevano seguito gran parte degli avvenimenti. Le radio, infatti, come quasi tutti gli oggetti meno ingombranti che si trovavano sul ponte della nave, erano rimaste attaccate al loro posto. Non avevano potuto vedere molto, ovviamente, mentre la nave roteava al centro di quel rapido sconvolgimento, ma adesso la situazione era chiara e sconfortante. Nessuno degli uomini nella sala dei teleschermi sapeva assolutamente cosa dire. Né avevano qualcosa da dire gli infelici meskiliti. Barlennan e Dondragmer, fatto l’inventario dei danni, trovarono che c’era ben poco di cui ringraziare la sorte. Disponevano ancora di grandi quantità di viveri, benché quelli che erano stati stipati nella canoa fossero scomparsi. La canoa, invece, era ancora legata alla cima con cui era stata trainata dalla «Bree» e non sembrava danneggiata. La stessa «Bree» poteva essere facilmente riparata grazie alla sua struttura articolata e mobile. La vera tragedia non stava nella mancanza di una nave, ma di un oceano su cui farla navigare. Fu Hars, ripresosi da tempo dalla batosta del masso, che propose di scomporre la «Bree» non del tutto, ma soltanto nel senso della lunghezza, per poi trascinare i due o tre tronconi fino al fiume e abbandonarli all’esile corrente: cosi sarebbero arrivati fin dove una maggiore abbondanza di acque avrebbe permesso di ricostruire la nave e quindi di riprendere il mare. Barlennan accettò la proposta del suo marinaio. Ma prima lo mandò a controllare, a valle del fiume, a quale distanza cominciavano le acque più profonde. Mentre l’equipaggio si metteva a smontare la nave, dopo avere rimosso il carico nei punti in cui passavano le connessure, Dondragmer disse a un tratto, come colto da un pensiero improvviso: — Chissà se il tempo è ancora troppo sfavorevole all’uscita di quelle macchine volanti? Barlennan guardò il cielo. — Le nubi sono ancora molto basse — disse — e il vento soffia con estrema violenza. Sarà meglio, comunque, tenere d’occhio il cielo, di tanto in tanto. Mi farebbe piacere rivedere una di quelle macchine. — Una sola farebbe piacere anche a me — disse asciutto il Secondo. Barlennan non aggiunse altro. Non aveva mai pensato di includere un aliante nella sua collezione di oggetti strani, ma l’idea non gli dispiaceva, adesso che ci pensava. Gli uomini su Toorey annunciarono un progressivo miglioramento delle condizioni meteorologiche e infatti, nei giorni successivi, le nuvole cominciarono a diradarsi. Ma benché ogni giorno di più le condizioni diventassero favorevoli per il volo, ben pochi marinai pensavano a scrutare il cielo. Erano tutti troppo occupati. Il piano di Hars s’era rivelato eccellente, dato che, poche centinaia di chilometri a valle, il fiume cominciava a essere abbastanza largo e abbastanza profondo per consentire un minimo di navigabilità verso il mare. Ma l’aumento della forza di gravità si faceva sentire e il sollevamento di qualunque cosa, anche minima, diventava un’impresa faticosissima. L’ingegnosità e la pazienza, tuttavia, ebbero la meglio sugli impedimenti naturali determinati dalla legge dei gravi, e dopo quattrocento giorni una lunga fila di zattere sezionate e agganciate per il lungo, dopo essere state trascinate fin sulla riva del fiume e ricaricate di tutti i beni della nave, furono messe in acqua e un po’«con l’aiuto della corrente, un po’«grazie agli sforzi dell’equipaggio, furono sospinte ancora una volta verso il mare. Le macchine volanti riapparvero subito dopo che la nave era giunta in quel tratto dove gli argini erano più ripidi e il letto più incassato, poco prima che il fiume si gettasse nel lago. Karondrasee fu il primo ad avvistarle. Il suo ululato di allarme mise in agitazione meskliniti e terrestri contemporaneamente, ma i terrestri, come al solito, non videro avvicinarsi gli aeronauti, dato che gli apparecchi non presentavano un angolo d’inclinazione sufficiente verso il cielo. Solo Barlennan poté vedere tutto con la massima chiarezza. Erano otto alianti che si libravano in un volo bene ordinato e coordinato, ma senza essere disposti in formazione secondo i criteri terrestri. Vennero direttamente fin quasi sulla nave, sostenuti dalle correnti ascensionali che si alzavano dal lato sottovento della piccola valle, poi si inclinarono bruscamente per sfilarle davanti. Nell’istante in cui ogni aliante virava, scivolando d’ala, lasciava cadere un oggetto. Poi ritornava verso il lato sottovento e riprendeva quota. Quanto agli oggetti lanciati nel vuoto, tutti poterono vedere che si trattava di lance, molto simili ai giavellotti che gli abitanti delle rive del grande fiume avevano mostrato loro con intenzioni tutt’altro che amichevoli. Le lance caddero a rispettosa distanza dall’equipaggio, con grande soddisfazione di tutti. Ma, pochi istanti dopo, ecco gli alianti ritornare, e i marinai rannicchiarsi per il timore di essere bersagliati da tiri più precisi. Ma anche questa volta i giavellotti caddero più o meno alla stessa distanza dei precedenti. Al terzo lancio fu chiaro che tutta la manovra doveva avere uno scopo, e al quarto anche lo scopo era evidente: ogni giavellotto caduto nel fiume era penetrato per una buona metà nel tenace fondo argilloso, tanto che dopo il terzo lancio più di venti palafitte formavano un efficace sbarramento alla discesa della nave in mare. Quando la «Bree» giunse davanti al blocco, il bombardamento di giavellotti cessò. Era diventato inutile, perché quelle lance, gettate sul bersaglio da una trentina di metri d’altezza in un campo di sette gravità, erano conficcate così saldamente che nessuno sarebbe riuscito a strapparle dal fondo del fiume. Come Berblannen e Hars poterono costatare a loro Spese, dopo parecchi minuti di sforzi inauditi. Due o tre giorni dopo, un’altra dozzina di aerei apparve in lontananza, si divise in due gruppi e venne a posarsi sulle cime che circondavano la nave prigioniera. Gli atterraggi avvennero, come i Volatori avevano previsto, sul vento; le macchine volanti si abbassarono in scivolata e si fermarono a pochi metri dal punto in cui avevano toccato terra. Da ogni apparecchio scesero quattro esseri, che, corsi di fianco alle ali, ancorarono velocemente gli alianti ai cespugli intorno. Quella che era stata fino a quel momento soltanto un’ipotesi, ebbe ora la conferma dei fatti: i nuovi venuti erano identici nella forma, nelle dimensioni e nel colore ai marinai della «Bree». Solo dopo che ebbero ultimato le manovre piuttosto complesse di ancoraggio degli apparecchi, rivolsero la loro attenzione alla nave e al suo equipaggio. Un singolo fischio lamentoso, che risuonò da una cima all’altra, era evidentemente il segnale della conclusione delle manovre. Gli equipaggi degli alianti calati sull’altura sottovento cominciarono a discendere il pendio. Non procedevano a balzi, come avevano fatto subito dopo l’atterraggio, ma strisciavano alla maniera dei bruchi, secondo l’unico sistema di locomozione che la gente di Barlennan conosceva prima della sua spedizione agli Orli del Mondo. Ma avanzavano rapidi e al tramonto erano già a distanza di tiro. A questo punto si fermarono e attesero l’alba. Le due lune facevano piovere una luce sufficiente sui due schieramenti, perché ognuno potesse controllare che l’altro non faceva nulla di sospetto. All’alba, la marcia venne ripresa ed ebbe termine quando il primo dei nuovi venuti si trovò a meno d’un metro dal marinaio più vicino. Nessuno di loro sembrava portare armi, e Barlennan si fidò ad andare incontro ai visitatori, dopo avere ordinato a due marinai di mettere bene a fuoco la scena con gli obiettivi delle radiocamere. Il pilota dell’aliante non perse tempo e, appena Barlennan gli fu davanti, attaccò a parlare. Il Comandante, però, non capì una parola. Dette alcune frasi, il visitatore sembrò accorgersene e dopo una pausa riprese a parlare più lentamente, e con un linguaggio che a Barlennan parve diverso dal primo. Per non perdere altro tempo, il Comandante disse stavolta di non capire. Allora l’aeronauta cambiò idioma ancora una volta, e Barlennan con grande sorpresa riconobbe la propria lingua. Le parole erano pronunciate molto lentamente e con un accento imperfetto, ma erano comprensibilissime. — È passato molto tempo da quando ho sentito parlare la tua lingua — diceva l’altro. — Spero di farmi capire ancora. Mi segui? — Perfettamente — disse Barlennan. — Bene. Io sono Reejaaren, interprete di Marreni, Governatore dei Porti Esterni. Ho ricevuto l’ordine di informarmi della tua identità: da dove vieni e a quale scopo navighi sui mari intorno a queste isole. — Siamo mercanti in viaggio d’affari, senza mete particolari. — Barlennan non aveva nessuna intenzione di parlare dei suoi rapporti con creature venute da un altro pianeta. — Ignoravamo l’esistenza di queste isole. Ci stavamo allontanando dagli Orli, semplicemente perché ne avevamo abbastanza. Se desideri commerciare con noi, siamo più che disposti a trattare. Altrimenti, chiediamo soltanto che ci sia permesso di continuare il nostro viaggio. — Sono le nostre navi e i nostri alianti che alimentano i traffici in questi mari: non ne abbiamo mai visti di altre nazioni — ribatté Reejaaren. — C’è una cosa che non capisco. Il mercante dell’estremo sud che m’insegnò la tua lingua mi disse di venire da una terra che si trova sull’altra costa di un mare al di là del continente occidentale. Noi sappiamo che non esiste alcun passaggio fra il nostro mare e quello, e che un’ininterrotta distesa di terre separa queste isole dalle regioni dei ghiacci. Eppure la tua nave proveniva dal nord quando vi abbiamo avvistati. Questo indicherebbe che voi stavate incrociando per questi mari alla deliberata ricerca di terre, ma non corrisponde a quello che mi hai detto. Non vogliamo spie nei nostri territori. — Noi proveniamo dal nord e abbiamo attraversato il continente che divide questo oceano dal nostro. — Barlennan capì subito che la verità aveva tutta l’aria di una bugia. E così, infatti, la intese subito l’altro. — Vuoi farmi credere che avete smontato la vostra nave e ne avete trascinato le varie parti attraverso un intero continente? — Sì. — E come hai fatto? — E voi come fate a volare? È una cosa che a molti sembrerebbe una spudorata menzogna, a sentirla raccontare. — Non crederai che io ti sveli una cosa simile! Noi possiamo tollerare i semplici sconfinamenti; ma le spie ricevono un trattamento che non conosce clemenza. Barlennan cercò di correre ai ripari: — Non volevo farmi svelare il vostro segreto, ma semplicemente evitare, col maggior tatto possibile, che tu mi chiedessi come abbiamo fatto a compiere la traversata per terra. — E invece dovevo chiedertelo e te l’ho chiesto. Non sembra che tu ti renda conto della tua posizione, straniero. Ciò che tu pensi di me non ha nessuna importanza, ma quello che penso io di te ha un gran peso, invece. Per esempio, se vorrai partire di qua, come sembri ansioso di fare, dovrai convincermi che non sei pericoloso. — Ma che pericolo può rappresentare una nave sola con il suo equipaggio? Perché dovreste avere paura di noi? — Non abbiamo paura. Ma i danni che potreste farci sono ovvi: un solo individuo, per non parlare di un’intera nave, potrebbe trafugare informazioni che non vogliamo mettere in circolazione. Anche se sappiamo benissimo che i barbari non possono imparare il segreto del volo a meno che non lo si spieghi loro con molta cura e pazienza. Ecco perché, poco fa, la tua domanda mi ha fatto ridere. Ti invito a essere prudente quando parli. Barlennan non aveva sentito nessuna risata, perciò adesso cominciò a diffidare fortemente dell’interprete e della sua gente. Una mezza verità, che paresse quasi una resa, era probabilmente la mossa migliore che poteva fare con quella razza di aeronauti sospettosi. — Siamo stati aiutati nel rimorchiare la nave attraverso il continente — disse, assumendo un tono lievemente più severo. — Da chi, dai lanciatori di macigni o dalle tribù rivierasche? La tua lingua deve avere una capacità di persuasione davvero straordinaria. Noi non abbiamo mai ricevuto altro che attacchi da quelle popolazioni. — Con grande sollievo di Barlennan, cambiò argomento. — Dunque, tu vuoi commerciare con noi, ora che ti trovi in queste isole. Che cosa hai da offrire? Immagino anche che vorrai visitare una delle nostre città. Barlennan annusò la trappola e rispose: — Noi siamo disposti a trattare i nostri affari qui, o dovunque tu voglia, per quanto preferiremmo non allontanarci dal mare più di così. Tutto ciò che abbiamo da barattare, per il momento, è un carico di viveri provenienti dall’istmo, vettovaglie che probabilmente voi possedete già in grande abbondanza, grazie alle vostre macchine volanti. — È abbastanza facile vendere viveri — disse l’altro, con una certa ambiguità. — Sei disposto a trattare i tuoi affari prima di fare un altro passo verso l’oceano? — Se è necessario, sì. Ma non vedo proprio perché. Le vostre macchine volanti possono sempre raggiungerci prima che ci siamo troppo allontanati dalle vostre coste, se anche volessimo partire senza il vostro consenso, non ti pare? Fu proprio l’ultima frase che rinnovò i sospetti di Reejaaren. — Può darsi, ma non tocca a me decidere. È a Marreni che spettano le decisioni, ma credo che ti convenga rassegnarti ad alleggerire la tua nave. Ci saranno comunque i diritti portuali da pagare. — Diritti portuali? Non mi sembra che questo si possa chiamare un porto. E poi non siamo sbarcati qui, ci siamo stati sbattuti dal vento. — Non importa. Le navi straniere devono pagare i diritti d’ancoraggio. L’entità del tributo viene stabilita di volta in volta dal Governatore dei Porti Esterni, e credo di poterti dire che buona parte dell’impressione che potrà fargli la tua visita dipenderà da me. Un po’«più di cortesia, dunque, potrebbe esserti utile fin d’ora. L’interprete si voltò e se ne andò, seguito da due suoi compagni. Il terzo rimase nelle vicinanze, mentre l’aliante si levava in volo. Rimasto solo con Dondragmer, Barlennan sfogò la sua ira repressa. — Anch’io non avrò pace finché non avrò messo a posto quel presuntuoso imbecille — disse Dondragmer. — Barbari, ci ha chiamato! Me lo voglio cucinare in salsa agrodolce, quel signorino! Ma abbiamo bisogno di saperne di più. I Volatori, per esempio, conoscono il funzionamento di quegli alianti? E in questo caso, saranno disposti a dircelo? — Lo conosceranno senz’altro, a meno che, usando da tanto tempo macchine per volare molto più complicate, non se ne siano dimenticati… — Tanto meglio, per quello che ho intenzione di fare. — … ma non credo che vorranno dircelo — riprese Barlennan. — Avrai ormai capito, penso, che cosa spero di guadagnare da questa spedizione: voglio imparare tutto ciò che ci serve per sapere della scienza dei Volatori. Ecco perché sono deciso ad arrivare a quel loro razzo presso il Centro. Me lo ha detto anche Charles: lì sono immagazzinati quasi tutti i loro strumenti scientifici più progrediti. Quando ce ne saremo impossessati, non ci sarà più nessun pirata su tutto Mesklin che potrà farci paura. Saremo noi che detteremo agli altri i diritti portuali che vorremo esigere. — Non ne dubito. — Ecco perché credo che non vorranno dirci niente su quegli alianti. Possono sospettare le mie intenzioni in merito al razzo. — Forse esageri tu, con i tuoi sospetti. Hai mai provato a chiedere qualcuna delle informazioni scientifiche che hai intenzione di rubare? — Sì, e Charles mi ha detto che sarebbe stato troppo difficile farmela capire. — Forse aveva ragione, o forse neanche lui sapeva le cose che tu volevi farti spiegare. Ad ogni modo, proverò a fare delle domande a qualcuno dei suoi compagni circa quegli alianti. Voglio vedere quel Reejaaren sprofondare nella vergogna più nera. — Insomma, si può sapere che intenzioni hai? Dondragmer si decise a rivelargliele. Barlennan in un primo momento parve dubbioso, ma poi a poco a poco divenne sempre più entusiasta. Alla fine tutti e due si diressero verso le radiocamere. Capitolo 13 L’IMPRUDENZA DI BARLENNAN Reejaaren non si fece vedere per parecchi giorni. In compenso quattro o sei alianti in volo tenevano sotto costante controllo la «Bree», e altrettanti se ne stavano al suolo, sulle colline circostanti, vicino a delle strane catapulte di corde elastiche, pronti al decollo. I terrestri dell’osservatorio lunare avevano accettato il piano di Dondragmer con entusiasmo, seppure velato di una certa ironia, sospettava Barlennan. Quando già l’interprete stava per ritornare, Dondragmer era ancora indaffarato alla radio a parlare con i terrestri di un altro suo progetto. Ma, dietro le insistenze di Barlennan, lo accompagnò verso il parco degli alianti. Il tempo si era ormai completamente ristabilito. Rimanevano soltanto i perpetui venti dei mari di Mesklin ad aiutare o ad ostacolare il volo. Quel giorno sembravano molto favorevoli. Gli alianti, quasi si trattasse di creature vive, facevano tendere al massimo gli ormeggi e gli equipaggi stavano vicino alle ali, tenendosi saldamente aggrappati ai cespugli intorno, pronti ad aggiungere la loro forza, se necessario, a quella dei cavi di sicurezza. Barlennan e il Secondo continuarono ad avvicinarsi, fino a quando un secco comando ordinò loro di fermarsi. I due marinai si mantennero a una distanza di circa trenta metri dagli apparecchi, guardandosi intorno con indifferenza, mentre i piloti li fissavano con aria bellicosa. Evidentemente l’arroganza dell’interprete era una caratteristica comune a tutti gli abitanti di quella nazione. — Avete l’aria meravigliata, barbari — disse uno dei piloti dopo un attimo di silenzio. — Se pensassi che potreste imparare qualcosa solo guardando le nostre macchine volanti, vi costringerei a fermarvi con la forza. Ma, stupidi come siete, posso soltanto assicurarvi che sembrate tanti bambini a bocca aperta. — Non mi sembra che ci sia molto da imparare dalle vostre macchine — disse Barlennan. — Per esempio, potreste risparmiarvi molte noie col vento, abbassando semplicemente gli aleroni e i piani mobili, invece di tenere occupata tanta gente a tenere fermi gli apparecchi. «Aleroni» e «piani mobili» erano termini che Barlennan aveva imparato da Lackland e che il pilota ovviamente non capì. Fu necessaria una spiegazione e, mentre il Comandante gliela dava, le superiori conoscenze del «barbaro» lasciarono perplesso l’aviatore. — Hai già visto degli alianti prima d’ora? E dove? — chiese alla fine. — Non ho mai visto un simile tipo di macchine volanti in vita mia — rispose Barlennan, con un tono che pareva smentire le sue stesse parole. — Non sono mai arrivato così vicino agli Orli del Mondo come in questa spedizione, ma sono sicuro che delle strutture così fragili cadrebbero a terra schiacciate dall’aumento di peso, se solo si spingessero molto più a sud. — Ma come… — balbettò l’aviatore, sbalordito di fronte a tanta scienza. Ma subito s’interruppe: quello non era l’atteggiamento che una creatura civile doveva tenere alla presenza di un barbaro. — Quando tornerà Reejaaren, sarà senza dubbio disposto a sentire tutti i perfezionamenti tecnici che potrai suggerire — riprese. — Per il momento ti consiglio di stare lontano, col tuo compagno, dai nostri velivoli, se non vuoi correre il rischio di essere preso per una spia. Barlennan riferì a Lackland il colloquio. — Come ha reagito il pilota quando hai alluso indirettamente all’esistenza di alianti capaci di stare in aria nelle latitudini con duecento gravità? — chiese Lackland. — Hai l’impressione che ti abbia creduto? — Difficile rispondere. Ha tagliato corto, rimandando ogni discussione al ritorno dell’interprete. Ma penso che abbiamo trovato il giusto atteggiamento da tenere con questi aristocratici pieni di arie. Tuttavia, al ritorno di Reejaaren, non sembrò che la nuova linea di condotta di Barlennan gli avesse fatto molta impressione. — Il Governatore dei Porti Esterni ha deciso di ritenere, per il momento, che le tue intenzioni non sono pericolose — cominciò con il suo solito tono di superiorità. — Naturalmente hai violato le nostre leggi, sbarcando senza autorizzazione, ma ha riconosciuto che ti trovavi in difficoltà piuttosto gravi ed è propenso a mostrarti tutta la sua indulgenza. Mi ha pertanto conferito l’incarico di ispezionare nave e carico e di valutare l’entità dei relativi diritti d’ancoraggio, stabilendo una penalità. Reejaaren non abbandonò mai, nemmeno per un solo istante, la sua aria di grande superiorità, mentre controllava il carico della «Bree», ma durante l’operazione si fece scappare delle involontarie informazioni, che certamente di sua spontanea volontà non avrebbe mai dato. E dall’interesse che rivelò per l’acquisto dei famosi «coni d’abete», Barlennan capì che i «barbari» dell’istmo erano un avversario abbastanza temibile per il popolo di Reejaaren, nonostante i suoi alianti. In fondo, il popolo di Reejaaren non era poi quel signore della creazione che voleva far credere. Dopo che Barlennan ebbe pagato tutte le sue multe, l’interprete parve diventare più gentile e compiacente, e una conversazione di carattere tecnico e culturale si intrecciò fra i due meskliniti. A proposito degli armamenti navali, Reejaaren spinse la sua degnazione fino a mostrare a Barlennan una balestra. Il Comandante della «Bree» non aveva mai visto una balestra in vita sua, naturalmente, e quindi riportò una straordinaria impressione quando l’interprete scagliò tre dardi dalla punta di quarzo che con una serie di tonfi si conficcarono, per oltre metà dei loro quindici centimetri di lunghezza, nel tronco duro di una pianta, a una quarantina di metri di distanza. Barlennan si offrì di acquistare la balestra, più che altro per prova, ma l’interprete insistette per regalargliela, insieme con una buona scorta di frecce e verrettoni. Il mesklinita sapeva bene che tutto quell’armamentario sarebbe diventato un peso morto prima ancora che la «Bree» avesse percorso un quarto della sua rotta verso le latitudini natie. Ma, ogni tanto, non gli dispiaceva di fare la parte dello stupido: come mercante, di solito, ci guadagnava. E così scambiò tutti i viveri che aveva in vendita con il tessuto speciale che in quelle isole serviva a tenere unite le ali degli alianti, con le corde elastiche che catapultavano i velivoli e con tutti gli ingegnosi manufatti che erano una specialità della popolazione delle isole. — Dove dirigerai la tua rotta? — chiese Reejaaren, alla fine di quella contrattazione. — Verso il sud e le Terre Gravi. Conosciamo questo oceano solo in base alle vaghe informazioni di mercanti che hanno compiuto la traversata dell’istmo. E vorrei saperne di più. — D’accordo. Sei libero di salpare quando vuoi. Può darsi che incontri qualcuno dei nostri, nei tuoi viaggi. Anche noi talvolta ci spingiamo verso il sud. E attenzione agli altri cicloni. — L’interprete stava per avviarsi verso la cima della collina, ma si fermò nuovamente per aggiungere: — È probabile che ci rivediamo sulla spiaggia. Il fiordo che tu hai imboccato è risultato un ottimo porto potenziale, e io devo andare a fare un sopralluogo. E riprese a salire verso il suo aliante. Rimossi gli sbarramenti grazie ai rinnovati consigli dei terrestri, che stavano insegnando a Dondragmer a costruire qualcosa di simile a un argano differenziale, la «Bree» poté ritornare nel lago, dove l’equipaggio si mise velocemente al lavoro per ricostruirla nella sua forma originaria, mentre gli alianti continuavano a incrociare nel cielo sopra di essa. E quando la nave giunse finalmente all’imboccatura del fiordo, Barlennan non fu troppo stupito di vedere che una decina di quei velivoli erano scesi sulla spiaggia. La «Bree» si ancorò presso gli alianti, e il primo a venire sotto bordo, naturalmente, fu l’onnipresente Reejaaren, diventato la cordialità personificata. — Vedo che la tua nave è ancora una volta in perfette condizioni di galleggiamento — disse. — Se fossi in te, cercherei di difendermi da un altro ciclone, stando il più lontano possibile dalla terraferma. — Giusto — disse Barlennan. — Ma il guaio, in acque sconosciute, è che non sai mai esattamente dove ti trovi. Tu non potresti darmi delle indicazioni sulla conformazione di queste coste? O magari delle vere e proprie carte geografiche? — Le carte geografiche di queste isole sono segrete, ovviamente — rispose l’interprete. — Comunque, dovresti esserti lasciato alle spalle tutto questo arcipelago entro quaranta o cinquanta giorni, e non ci sono altre terre verso sud per qualche migliaio di giorni di navigazione. Non conosco la velocità della tua nave, per cui non posso indicarti una rotta precisa. Alla fine incontrerai altre isole, poi la costa del continente che hai attraversato curva a est, e se sarai sempre andato verso sud in linea retta dovresti ritrovarla all’altezza… — A questo punto usò una misura che si riferiva alla graduazione di una bilancia a molla e corrispondeva a circa 45 gravità terrestri di latitudine. — Potrei dirti il nome di molti paesi che si trovano lungo quella costa; ma mi ci vorrebbe troppo tempo. Per riassumere, ti dirò che sono genti più dedite ai commerci che alla guerra… anche se faranno di tutto per non pagare ciò che gli darai. — E nessuno di quei popoli ci considererà delle spie? — chiese Barlennan. — È un rischio che si corre sempre, naturalmente, anche se quella gente ha ben pochi segreti che valgano la pena di essere rubati… In quel momento, Reejaaren vide per la prima volta la canoa che, carica di vettovaglie, era stata rimessa a rimorchio della «Bree». — Oh! — esclamò l’interprete — avrei dovuto vederla prima. Non avrei mai dubitato delle tue parole, quando hai detto che venivi dal sud. Come hai fatto ad averla dagli indigeni? Fu rispondendo a questa domanda che Barlennan commise il primo grave errore nei suoi rapporti con l’isolano. — L’abbiamo portata con noi. Usiamo spesso questo tipo di imbarcazioni per il trasporto di carichi supplementari. Come vedi, con la sua forma è adatta ad essere rimorchiata. — Dunque, anche nel tuo paese avete sviluppato questo tipo di scafo? — disse l’interprete, incuriosito. — Ecco una scoperta molto interessante. Non ne avevo mai viste, di canoe, nel sud. Posso darle un’occhiata? Noi non ce ne siamo mai serviti. Barlennan acconsentì, sia pure a malincuore. Con il massimo entusiasmo, Reejaaren scese in acqua: la parte anteriore del suo corpo si drizzò verticalmente per guardare all’interno della canoa, mentre le sue braccia munite in punta di pinze potentissime stringevano come una morsa i fianchi della canoa. Le fiancate cave, fatte di legname ordinario, scricchiolarono sotto la pressione. E nello stesso istante l’isolano lanciò un ululato d’allarme così acuto e lacerante, che i quattro alianti in volo sopra la «Bree» calarono rapidi sulla scena, mentre gli equipaggi dei velivoli fermi sulla spiaggia accorsero in massa. — Spie! — urlò l’interprete. — Porta subito la tua nave in secca, Barlennan, se questo è il tuo vero nome! Sei un abile bugiardo, ma questa volta le tue menzogne ti hanno portato dritto in prigione. Capitolo 14 ANCHE LE IMBARCAZIONI CAVE HANNO I LORO INCONVENIENTI La situazione era grave, perché il vento favoriva gli aerei in arrivo da ogni parte, per bloccare la nave. Ma Dondragmer reagì con decisione eccezionale: puntando contro l’interprete la balestra che lui stesso aveva dato loro, disse freddo e risoluto — Un momento, Reejaaren. Se credi di tornartene a terra ti sbagli di grosso. Se non sali immediatamente a bordo sarà come se tu volessi scappare E non illuderti che mi manchi la mira per usare la tua balestra! Su, muoviti! L’ultimo ordine fu urlato con tanta rabbia dal Secondo che il raffinato Reejaaren non esitò a salire a bordo della «Bree», tremante di collera e di paura insieme. — E voi pirati credete di salvarvi, in questo modo? — disse. — Non avete fatto che peggiorare la vostra situazione Gli alianti interverranno contro la nave comunque, appena salperà, anche se io sarò a bordo. — Allora dai l’ordine che ci lascino stare. — Non obbediranno a nessun ordine mio, finché mi sapranno vostro prigioniero. — In ogni caso — intervenne Barlennan — dovremo tenerti qui con noi fino a quando non si sia raggiunto un accordo che ci permetta di partire. A meno che, nel frattempo, non riusciamo a trovare il modo di eliminare quelle macchine volanti di cui siete tanto fieri. È un peccato che non abbiamo pensato di portare un po’«dei nostri armamenti moderni in queste regioni arretrate del pianeta. — Si potrebbe provare l’effetto che ha su di loro qualche tiro bene aggiustato di questa balestra — propose Dondragmer. Krendoranic, il marinaio che aveva in consegna le munizioni della «Bree» e che aveva seguito il colloquio con il massimo interesse, approvò calorosamente. — Si, Comandante — disse. — Tentiamo. È da quando abbiamo lasciato la tribù del fiume che desidero fare un esperimento. — Che cosa vuoi fare? — chiese Barlennan, seguendo Krendoranic verso uno dei portafuoco come lo chiamavano a bordo. Krendoranic non rispose, ma sollevato il coperchio di una cassetta ne tirò fuori un pacchetto avvolto in un materiale che non lasciava filtrare la luce. Era un pacchetto sferico e chiaramente fatto apposta per essere lanciato dalla forza del braccio. Come tutti gli altri, Krendoranic era stato favorevolmente impressionato da quella nuova arte di lanciare proiettili. Ma ora voleva estendere il principio a più ampie applicazioni. Prese infatti il pacchetto e lo legò a un verrettone di balestra mediante una striscia di tessuto. Poi inserì il verrettone nella scanalatura dell’arma. A un cenno, uno dei marinai che formavano la squadra dei lanciafuoco gli si avvicinò con il congegno di accensione, rimanendo in attesa di ulteriori ordini. Dopo di che, con grande delusione degli osservatori terrestri, strisciò per meglio puntarla verso il cielo. Cosa che, però, impedì ai terrestri di seguire la scena. Gli alianti, nel frattempo, volteggiavano sempre più bassi sulla «Bree», facendo prevedere prossimo il lancio dei primi giavellotti. A un tratto Krendoranic latrò un ordine al suo subordinato, mentre prendeva di mira uno dei velivoli che si stava abbassando. Nell’istante in cui ebbe messo bene a fuoco l’aliante, impartì un altro ordine, e il suo aiutante avvicinò l’ignitore al pacchetto posto sulla punta lievemente rialzata del verrettone. Subito dopo, appena si levarono le prime lingue di fuoco, le pinze di Krendoranic si tesero sul grilletto e una scia fumosa si materializzò nell’aria, segnando la traiettoria del dardo lanciato dalla balestra. Il verrettone mancò quasi l’obiettivo, dato che il tiratore ne aveva sottovalutato la velocità. Ma il pacchetto di cloro esplose contro la coda dell’apparecchio che si mise ad ardere furiosamente. La nuvola fiammeggiante si stava adesso dilatando sulla parte posteriore del velivolo, che si lasciava dietro una scia di fumo, in cui incorse il resto dello stormo. L’aliante in fiamme si abbatté sulla spiaggia, e l’equipaggio lo abbandonò un istante prima dell’urto. Due dei velivoli rimasti avvolti dalla sua scia di fumo persero anchè essi la rotta, perché le esalazioni di cloruro d’idrogeno avevano stordito gli equipaggi, e sprofondarono entrambi nella baia; In effetti, quello di Krendoranic fu uno dei più grandi tiri contraerei della storia. Prima ancora che il terzo aereo si abbattesse, Barlennan ordinò che venissero mollate le vele. Il vento era piuttosto contrario, ma c’era abbastanza fondale per le chiglie mobili; e la «Bree» cominciò ad allontanarsi dalla bocca del fiordo. Per un attimo gli isolani sulla riva parvero sul punto di imbracciare le loro balestre, ma Krendoranic aveva nel frattempo preparato un altro dei suoi terribili dardi e lo stava puntando contro la spiaggia: bastò questo a farli fuggire tutti disperatamente. Reejaaren aveva assistito alla scena, in silenzio, mentre tutto l’atteggiamento del corpo rivelava in lui sconcerto e orrore. Alcuni alianti continuavano ancora a volteggiare molto alti sulla «Bree», ma l’interprete sapeva che i loro equipaggi non avrebbero osato avvicinarsi troppo. Intanto la nave cominciava ad allontanarsi dalla costa. Era tramontato il sole, e Barlennan colse l’occasione delle tenebre per dare a Lackland un ampio resoconto degli ultimi eventi. Quando sorse il sole Reejaaren, che aveva seguito la misteriosa conversazione del Comandante senza capirne una parola, ma convinto che il marinaio avesse informato i suoi superiori della propria missione di spionaggio servendosi di un metodo incomprensibile di comunicazione, chiese di essere rimandato a terra in tono del tutto diverso da quello che aveva usato fino allora con i «barbari». Barlennan lo calò in mare mentre la costa era ancora in vista, e l’infelice interprete, aggrappato a una specie di salvagente di fibra, rimase a galleggiare sballottato dalle onde sulla scia della «Bree». — Barl — disse la voce di Lackland alla radio, quando tutto fu finito — pensi finalmente di poterti tenere per qualche settimana lontano dai guai, almeno finché noi quassù non siamo guariti dai disturbi nervosi e digestivi che ci procurano le tue disavventure? Ogni volta che la «Bree» resta presa in trappola, tutti su questa luna invecchiano di dieci anni. Barlennan dette le più ampie assicurazioni, e la «Bree» continuò la sua non troppo rapida corsa verso il sud. Dopo qualche giorno dovettero dirottare per passare al largo di un altro gruppo di isole, tra le quali si vedeva un intenso movimento di alianti; ma anche gli apparecchi si tennero a debita distanza dalla nave. Evidentemente le notizie si diffondevano in fretta fra le popolazioni degli arcipelaghi. Alla fine anche l’ultima linea costiera scomparve all’orizzonte, e gli esseri umani comunicarono dall’osservatorio su Toorey che ora non ci sarebbero state più terre davanti alla «Bree». Alla latitudine di circa quaranta gravità, dirottarono ancora la nave verso sudest, per evitare la costa della massa di terra continentale che, come aveva detto Reejaaren, si spingeva molto più a est davanti a loro. In realtà la «Bree» stava navigando entro un passaggio relativamente angusto fra due grandi mari, ma era uno stretto troppo ampio per poter essere riconosciuto come tale dalla nave. Uno strano incidente si verificò un po’«più avanti nel nuovo mare. Alla latitudine di sessanta gravità, la canoa, ancora trainata a rimorchio, cominciò ad affondare sempre più sensibilmente nel liquido. La piccola imbarcazione venne subito accostata a poppa ed esaminata attentamente. C’era una grande quantità di metano liquido sul fondo, ma nella canoa, una volta svuotata del carico e issata a bordo per un controllo più accurato, non risultò la minima falla. Barlennan ne dedusse che dovevano essere stati gli spruzzi accumulati in molti giorni di navigazione, benché il liquido raccolto nel fondo cavo fosse stato molto più chiaro dell’oceano stesso. Rimise dunque la canoa in mare con il suo carico, ma dette ordine a un marinaio di tenere sotto continua sorveglianza la barca e di svuotarla ogni volta si rendesse necessario. Tutto andò bene per parecchi giorni. La canoa galleggiava quasi sopra la superficie del mare, appena era stata vuotata. Ma poi tornava a riempirsi di liquido, a un ritmo sempre più rapido. Altre due volte fu tirata a bordo e riesaminata, ma senza il minimo risultato. Lackland, consultato per radio, non seppe dare nessuna spiegazione; avanzò soltanto l’ipotesi che il legname fosse poroso, ma in questo caso la canoa avrebbe dovuto affondare fin dal primo giorno. La situazione arrivò al culmine a circa duecento gravità, quando ormai la «Bree» aveva percorso più di un terzo del suo viaggio. I minuti di luce diurna erano in aumento, ora, man mano che la primavera avanzava e la «Bree» si allontanava sempre più dal suo sole, mentre i marinai si abbandonavano a un sempre più piacevole senso di benessere. Il marinaio che aveva l’incarico di svuotare la canoa, non era di conseguenza molto attento quando accostò la barca a poppa e vi si calò dentro. Ma la sua attenzione si risvegliò subito. La canoa era affondata un poco, naturalmente, sotto il peso del marinaio, e allora anche il legame elastico delle fiancate cedette leggermente. Col cedimento dei fianchi, la barca affondò ancora di più. Il marinaio ebbe appena il tempo di sentire il fianco della canoa incurvarsi verso l’interno, quando tutta la barca sprofondò sotto la superficie liquida, mentre la pressione esterna diminuiva. Il peso del carico, maggiore di quello del metano, continuava a spingerla giù, e il marinaio si trovò a nuotare in mezzo al mare. La canoa s’immerse completamente, sempre attaccata alla cima di rimorchio, rallentando l’andatura della «Bree» con uno strattone, che mise subito in allarme tutto l’equipaggio. Il marinaio, arrampicatosi di nuovo a bordo, spiegò quello che era successo. Quando ritirarono la cima, attaccata a un capo, riemerse la canoa grondante metano. L’imbarcazione, ormai inutile, venne accantonata in un punto morto del ponte e trasformata in una specie di ripostiglio. Poi il Comandante ordinò che si riprendesse la navigazione regolare, e la monotona vita di bordo ricominciò a scorrere per centinaia, e poi per migliaia di giorni. Per i meskliniti, longevi di natura, lo scorrere del tempo contava ben poco; ma per i terrestri, nel loro osservatorio lunare, la crociera della «Bree» fini per diventare una noia interminabile, una parte del loro monotono trantran quotidiano nello spazio. Trascorsero così quattro mesi terrestri, corrispondenti a novemilaquattrocento e più giorni di Mesklin. La gravità era salita da centonovanta circa, nel punto dove la canoa era affondata, a quattrocento, poi a seicento e oltre, come appariva sulla lignea bilancia a molla, che era il sestante della «Bree» per la misurazione della latitudine. I giorni continuavano ad allungarsi e le notti ad abbreviarsi, fino a quando il sole fece completamente il giro del cielo senza mai toccare l’orizzonte, benché a sud tendesse ad abbassarsi un po’«di più. Lo stesso sole pareva rimpicciolito e come raggrinzito ai marinai, che si erano abituati a vederlo nel breve periodo del passaggio di Mesklin al perielio. E l’orizzonte, visto dal ponte della «Bree» attraverso gli apparecchi televisivi, era più alto del livello della nave, «al di sopra» della nave come Barlennan aveva spiegato pazientemente a Lackland mesi prima, ascoltando poi con scetticismo la risposta del terrestre che gli aveva detto trattarsi soltanto di un’illusione ottica. Anche la terra, che finalmente apparve davanti alla prora, era senz’ombra di dubbio al di sopra del livello della nave. Com’era possibile che un’illusione ottica corrispondesse alla realtà dei fatti? Al momento dell’arrivo ebbero la dimostrazione definitiva che la terra era proprio più in alto della nave. Giunsero infatti all’imboccatura di una vasta baia che si spingeva oltre, verso sud, per più di tremila chilometri, la metà circa della distanza che ancora li divideva dal razzo naufragato. Penetrarono nella baia a vele spiegate, ma sempre più lentamente, via via che la baia si restringeva alle dimensioni di un normale estuario. Poi, anziché cercare venti favorevoli con l’aiuto di Lackland, dovettero bordeggiare finché non si trovarono davanti alla bocca del fiume. Cominciarono quindi a risalirlo, ma veleggiando soltanto per brevi tratti perché la corrente contro il fondo piatto delle zattere era troppo forte e rapida. Il più delle volte, infatti, trascinarono la nave a rimorchio. Bastava per questo mandare sulla riva un’unica squadra munita di robuste corde per traino, perché in vicinanza di settecento gravità anche un solo mesklinita sviluppava una straordinaria forza di trazione. E così passarono altre settimane, durante le quali i terrestri sentirono dissolversi la noia e formarsi in loro una straordinaria tensione nervosa che a poco a poco contagiò tutta la stazione meteorologica di Toorey. La meta era quasi in vista, e le speranze dei terrestri si facevano sempre più febbrili. Tanto più grave, quindi, fu il colpo che provarono, forse più di quello sofferto mesi prima, quando il trattore di Lackland era giunto alla fine del suo viaggio. La ragione era quasi identica. Questa volta la «Bree» e il suo equipaggio erano ai piedi di una muraglia rocciosa a perpendicolo, invece che sull’orlo dello strapiombo. Il ciglio di quel burrone si trovava a non meno di cento metri sopra le loro teste, e con quasi settecento gravità arrampicarsi, saltare e altri rapidi movimenti a cui i meskliniti si erano abbastanza abituati nelle remote regioni degli Orli, rappresentavano qui un’impresa del tutto impossibile. Il razzo si trovava solo a ottanta chilometri di distanza in linea d’aria; ma superare i cento metri sulla verticale per i piccoli, coraggiosi meskliniti era come scalare, per un essere umano sulla Terra, una parete di almeno cinquanta chilometri… di roccia a strapiombo. Capitolo 15 SI ESPLORANO TERRE SCONOSCIUTE La paura irragionevole, viscerale, che l’altezza ispirava fin dalla nascita ai meskliniti era sparita da un pezzo; tuttavia, proprio la ragione diceva loro che in quella parte del pianeta una caduta, anche solo da un’altezza non superiore alla metà del corpo, sarebbe stata fatale persino ai loro robustissimi organismi. Di fronte a queste realtà, con una cocente frustrazione, l’equipaggio ormeggiò la «Bree» alla riva del fiume, a ridosso del torreggiante bastione roccioso che li divideva dal razzo prigioniero. I terrestri assistevano in silenzio alla loro impotenza, cercando invano di trovare una via per risalire la barriera. Nessuno dei razzi di cui poteva disporre la spedizione sarebbe mai stato in grado di sollevarsi contro una minima frazione della forza di gravità dominante sulle regioni polari di Mesklin. L’unico costruito a quello scopo si trovava inchiodato al suolo proprio li. E poi, anche ammesso che il razzo, sviluppando una velocità iniziale di fuga di quasi ottomila chilometri al secondo, fosse riuscito a vincere una forza di gravità settecento volte superiore a quella terrestre, nessun essere umano o vivente avrebbe potuto resistere a un’accelerazione cosi spaventosa. — A quanto pare, il viaggio non è ancora così vicino alla conclusione come credevamo — disse Rosten, dopo aver analizzato la situazione davanti ai teleschermi. — Eppure dovrebbe esserci una via per arrivare all’altopiano o alle pendici più lontane di quella muraglia. È vero che pare impossibile per Barlennan e i suoi arrampicarsi fin lassù, ma in linea di massima niente impedisce loro di fare il giro della muraglia. Quando Lackland comunicò questo punto di vista a Barlennan, il Comandante rispose: — È giusto, però anche il progetto del tuo amico Rosten presenta notevoli ostacoli. Già sta diventando più difficile procurarsi viveri dal fiume, e siamo ormai molto lontani dal mare. Inoltre non abbiamo la più pallida idea di quanto dovremo allontanarci nella ricerca di questa via verso l’altopiano, e questo rende quanto mai aleatorie le possibilità di rifornimento alimentari e quindi di ogni altro progetto d’una certa importanza. Piuttosto, avete preparato o potete preparare lassù le carte abbastanza particolareggiate di queste regioni tali da permetterci di stabilire un percorso che dia un certo affidamento? — Direi di sì — rispose Lackland. Ma quando alzò gli occhi dallo schermo e li rivolse verso i suoi compagni incontrò soltanto espressioni poco incoraggianti. — Che vi prende? — chiese. — Non possiamo fare una mappa fotografica, come abbiamo già fatto per le regioni equatoriali? — Sì — rispose Rosten — si può fare una mappa fotografica e anche con molti particolari dei rilievi. Ma non sarà facile. All’equatore, un razzo può mantenersi al di sopra di un dato punto, a velocità circolare, a non meno di mille chilometri dalla superficie del pianeta, vale a dire proprio in prossimità del margine interno dell’anello. Ma sopra i poli la velocità circolare non sarebbe sufficiente, anche se potessimo svilupparla come si deve. Dovremmo seguire un’orbita iperbolica di non so che tipo per poter riprendere fotografie a breve distanza senza consumare quantità enormi di carburante; e questo richiederebbe una velocità, rispetto alla superficie, di molte centinaia di chilometri al secondo. Puoi capire da te che razza di fotografie verrebbero prese in queste condizioni. Penso che le foto dovrebbero essere scattate con obiettivi dalle lenti a distanza focale grandissima, dei veri e propri obiettivi telescopici. E anche così, potremmo solo sperare che i particolari riescano abbastanza nitidi per le esigenze di Barlennan. — Non ci avevo pensato — disse Lackland. — Ma è un tentativo che possiamo fare, in ogni modo. E del resto non vedo altre alternative. — D’accordo. Lanceremo uno dei razzi e ci metteremo subito al lavoro. Lackland riferì il succo di questa conversazione a Barlennan, che rispose di essere pronto a muoversi appena in possesso di dati geografici sufficienti. — Così — concluse — potrei risalire verso il corso superiore del fiume seguendo il piede del muraglione a destra; oppure lasciare la nave e il fiume e seguire il muraglione a sinistra. Siccome non so quale delle due direzioni sia la migliore dal punto di vista della distanza, aspetteremo. Io preferirei risalire il corso del fiume, naturalmente, perché trasportare radio e vettovaglie non sarebbe un’impresa da poco. — Ti capisco. Come stai a viveri? Mi dicevi che non è facile procurarsene, così lontano dal mare. — Scarseggiano, ma la zona non è del tutto deserta. Comunque, ne abbiamo abbastanza per andare avanti per un po’. Questa balestra serve solo come pezzo da museo ormai da un bel pezzo. Poi Barlennan tornò alle sue incombenze, che non erano né poche né leggere. Innanzitutto, aveva molte cose da rivedere sulla «coppa», che era il suo equivalente di un mappamondo. I terrestri, lungo tutto il viaggio, gli avevano dato rotte e distanze per le coste in ogni direzione, così che ora poteva riportare quasi tutte le linee costiere dei mari attraversati sopra la mappa concava. Era anche necessario risolvere il problema del vettovagliamento. Non c’era un’urgenza assoluta, ma d’ora in poi la caccia con le reti sarebbe diventata sempre più necessaria. Il fiume, largo in quel punto duecento metri circa, sembrava abbastanza pescoso per le esigenze del momento, ma la terraferma appariva molto meno promettente. Nuda e sassosa, da una parte si estendeva solo per pochi metri lungo la riva del fiume per finire bruscamente contro il piede della muraglia; sull’altra riva, una serie di basse colline che si perdevano una dietro l’altra senza fine, continuando con ogni probabilità ben oltre il lontano orizzonte. La parete rocciosa era liscia e uniforme, come una lastra di cristallo. Per arrampicarvisi, anche sulla Terra, ci sarebbe voluto l’equipaggiamento e il peso corporeo di una mosca (su Mesklin, anche una mosca sarebbe pesata troppo). Era presente un po’«di vegetazione, ma non molta, e durante i primi cinquanta giorni dallo sbarco presso il muraglione nessun marinaio della «Bree» vide la minima traccia di fauna terrestre. Ogni tanto, qualcuno aveva l’impressione di avere notato un piccolo movimento, ma ogni volta ci si accorgeva poi che si era trattato soltanto di ombre proiettate dal sole roteante, che ormai restava nascosto ai loro occhi solo quando, periodicamente, imboccava il tratto che passava dietro il ciglio del bastione roccioso. Si trovavano così vicini al polo sud che non si notava nessun visibile mutamento nell’altezza del sole durante il giorno. Per i terrestri, invece, questa fase della spedizione rappresentò un periodo più movimentato. Quattro di loro, tra i quali Lackland, salirono a bordo del razzo prescelto per l’operazione e si lanciarono verso il pianeta, lasciandosi alle spalle il satellite che proseguiva il suo velocissimo moto orbitale. Dal punto da cui avevano decollato, l’immenso pianeta appariva come un disco molto piatto, circondato da un alone luminoso, ma lo sfondo del cielo nero punteggiato di stelle accentuava soprattutto l’aspetto appiattito di quel mondo gigantesco. Quando il pilota fece ricorso all’energia propulsiva del razzo, per annullare la velocità orbitale del satellite e tenersi cosi a distanza appropriata sul piano equatoriale del pianeta, il quadro cambiò ancora. L’anello si rivelò per quello che era, ma anche il fatto che si componesse in realtà di due anelli concentrici non lo fece assomigliare di più al sistema di Saturno. Lo schiacciamento ai poli era troppo forte per poter trovare una qualsiasi somiglianza con qualunque altro corpo celeste: un diametro polare di trentamila chilometri in confronto a un diametro equatoriale di ottantamila era qualcosa che non aveva paragoni nello spazio. Tutti i membri della spedizione lo avevano osservato già parecchie altre volte dalla luna, ma anche adesso lo trovarono affascinante. Allontanandosi dall’orbita di Toorey, il razzo poté raggiungere una velocità altissima che però, come Rosten aveva previsto, non fu sufficiente, e si dovette ricorrere di nuovo all’energia propulsiva. E sebbene la zona polare venisse sorvolata a una quota di parecchie migliaia di chilometri, il fotografo fu costretto a lavorare in tempi strettissimi. La sorvolarono tre volte, disponendo a ogni passaggio di due o tre minuti per la ripresa delle foto e impiegandone molti di più per fare un giro completo intorno al pianeta. Si erano anche assicurati che ogni volta fosse rivolta al sole una faccia diversa del pianeta, in modo da valutare l’altezza del bastione roccioso dalle variazioni della sua ombra. Infine, con le, fotografie già sviluppate e disposte sulle tavole cartografiche, il razzo consumò altro propellente per allargare la sua iperbole fino a tagliare l’orbita di Toorey, riducendo la velocità per non aver bisogno poi di un’accelerazione troppo forte per frenare, nel momento in cui avesse raggiunto il satellite. I risultati, come avveniva per tutte le cose di Mesklin, furono interessanti, ma soprattutto sorprendenti. In questo caso la sorpresa riguardò le dimensioni del frammento di crosta planetaria, che sembrava essere stato sospinto all’insù in un blocco unico. Questo altopiano aveva la forma della Groenlandia, con una lunghezza di cinquemila chilometri e la punta rivolta verso il mare da cui la «Bree» era venuta. Il fiume che vi portava, tuttavia, procedeva lungo anse amplissime fino a toccarne il bordo quasi al limite opposto, al centro della larga e piatta base del cuneo. La sua altezza ai margini era incredibilmente uniforme, anche se dalle misurazioni dell’ombra risultava leggermente maggiore sul lato opposto a quello dove si trovava ora la «Bree». Non si notavano ombre frastagliate che avrebbero indicato degli anfratti nel bastione roccioso. Meno che in un punto. Una foto, e una sola, presentava un’ombra più stemperata, che suggeriva la presenza di un pendio meno ripido. Si trovava anche questa all’altra estremità del cuneo, forse a millecinquecento chilometri dalla posizione attuale della «Bree». Ed era in prossimità del corso del fiume, che in quel punto formava un’ampia ansa, allontanandosi dai piedi del muraglione roccioso, come per aggirare un monte di detriti prodotti dal crollo di un pendio. Un buon segno. Ciò significava che Barlennan avrebbe dovuto percorrere almeno duemilacinquecento chilometri, invece di ottanta, e per una buona metà per via di terra. Comunque, non parevano esserci eccessivi ostacoli lungo questo cammino. I quattro si ripromisero di fare un’analisi più accurata del terreno che Barlennan avrebbe dovuto percorrere, appena fossero tornati nell’osservatorio di Toorey. Qui però, dopo avere studiato le rilevazioni con microscopi, filtri ed esposimetri, i cartografi fornirono un quadro un po’«meno incoraggiante di quanto fosse apparso a bordo del razzo. L’altopiano sembrava terribilmente accidentato. Non si vedeva traccia di fiumi o di qualsiasi altra causa naturale che potesse spiegare quella crepa nella muraglia. Tuttavia essa esisteva veramente: Lackland non si era sbagliato. I rilievi fotometrici rivelavano che il centro dell’altopiano era più basso degli orli, così da formare una specie di gigantesca coppa poco profonda. Di quanto più basso, però, non era possibile calcolarlo, per la mancanza di ombre proiettate verso l’interno. Gli esperti si dissero comunque certi che la sua parte più bassa era sempre molto al di sopra del livello del terreno esterno alla muraglia. Rosten, nel trarre le conclusioni, abbozzò una smorfia. — Ho paura che questo sia il massimo dell’aiuto che possiamo dare al povero Barlennan. A parte, naturalmente, tutto il sostegno morale che vorrai dargli tu, visto che di aiuti materiali non c’è più da parlarne. — Spero che non si scoraggi proprio adesso che siamo cosi vicini all’obiettivo — disse Lackland. — Perché, vede, professore, Barlennan non crede ancora a tutto quello che gli abbiamo detto. Vorrei che qualcuno riuscisse a spiegargli quell’illusione ottica dell’orizzonte che appare tanto elevato… e vorrei capirla anch’io. Così, almeno, gli passerebbe anche l’altra illusione che questo pianeta abbia la forma di una coppa, e che le nostre affermazioni di provenire da un altro mondo siano per il cinquanta per cento frutto di una nostra superstizione. — Ma come — intervenne uno dei meteorologi, scandalizzato — vuoi dire che non capisci perché l’orizzonte appare più alto di quanto non sia? — So che si tratta di un caso di rifrazione della luce, ma niente di più. — Ma è semplicissimo! Uno strato di aria calda, e quindi di densità minore, dà l’impressione che la luce sia più in alto di quello che è in realtà: infatti i raggi di luce attraverso l’aria meno densa viaggiano più velocemente che attraverso l’aria più fredda e più densa. I miraggi, per esempio, sono il risultato di un fenomeno analogo: una «lente» o un «prisma» di aria più fredda o più calda rifrange la luce. Anche qui avviene la stessa cosa, se non che la causa vera è la gravità. L’idrogeno ha una densità sempre minore via via che ci si alza sopra la superficie di Mesklin; e naturalmente la bassa temperatura contribuisce a sua volta. — E in quale proporzione la densità dell’idrogeno diminuisce in rapporto all’altezza? — chiese allora Rosten, seccamente. Il meteorologo prese un regolo calcolatore e si dedicò ad alcuni rapidi calcoli. — Supponendo — disse infine — una temperatura media di centosessanta gradi sotto zero, a cinquecento metri di quota la densità atmosferica si ridurrebbe a circa l’uno per cento della densità a livello del mare. Un silenzio esterrefatto segui queste parole. — E di quanto si riduce a un’altezza, diciamo, di cento metri? — chiese ancora Rosten. La risposta giunse quasi a fior di labbra: — Più o meno del settanta o dell’ottanta per cento. Forse più che meno. Rosten si mise a tamburellare con le dita sulla tavola; poi, bruscamente, alzò gli occhi e li volse verso le facce attonite, che lo stavano fissando in silenzio. — Suppongo che a questo punto nessuno possa più suggerire una soluzione brillante del problema — disse in tono lugubre. — O c’è qualcuno tra voi che spera veramente che Barlennan e i suoi simili possano vivere e lavorare sotto una pressione atmosferica che corrisponde, sulla Terra, a quella di una quota stratosferica di quindicimila metri? — Non è del tutto escluso — disse Lackland, riflettendo intensamente. — Tempo fa, Barlennan mi disse di essere stato capace di restare sott’acqua, scusate… sotto il metano, per parecchi minuti, durante la traversata di un fiume, in cui riuscì a nuotare completamente sommerso per lunghi tratti. E anche quella tribù rivierasca, ricordate? poté catturare la «Bree», grazie alla capacità di ogni individuo di resistere alcuni minuti in immersione. Se si tratta solo di qualcosa di simile al nostro modo di allenarci a tenere il fiato sospeso il più a lungo possibile, o a un sistema di riserva di fiato, come avviene ad esempio per i nostri cetacei, allora non c’è da stare allegri. Ma se un mesklinita può realmente recuperare una parte notevole dell’idrogeno che gli è necessario, utilizzando quello che trova in soluzione nei fiumi e nei mari del pianeta, allora abbiamo qualche speranza. Rosten rifletté sulle parole di Lackland. Poi: — Benissimo. Chiama il tuo minuscolo amico alla radio e fatti dire tutto ciò che sa sulle sue capacità respiratorie. Tu, Rick — disse a un altro dei tecnici che lo attorniavano — cerca di sapere o di trovare in laboratorio quale sia il tasso di solubilità dell’idrogeno nel metano a una pressione di otto atmosfere e a temperature tra -145 °C. e -185 °C. Dave, metti in tasca il regolo, siedi davanti al calcolatore elettronico e trovami i valori precisi di densità dell’idrogeno su quell’altopiano con l’aiuto di tutti i dati disponibili della fisica, della chimica, della matematica e di ogni altra possibile risorsa della meteorologia, compreso il tuo santo patrono. A proposito, non avevi detto di avere notato una calata brusca di almeno tre atmosfere nel centro di alcuni di quei cicloni tropicali? Charlie, fatti dire da Barlennan se, e come, lui e i suoi uomini hanno avvertito il fenomeno. Su, al lavoro! Rosten rimase nella sala dei teleschermi con Lackland che si era già messo in contatto con Barlennan, ancora fermo sul lontano polo di Mesklin. Il mesklinita confermò di poter nuotare per lunghi tratti sommerso, ma non seppe spiegare come e perché. In effetti, poiché non aveva un apparato respiratorio di tipo umano, non respirava e perciò era immune a quel senso di soffocamento che prova l’uomo quando è sommerso. Anche se restava troppo a lungo sotto la superficie del metano e in movimento, l’effetto era qualcosa di simile a una profonda sonnolenza, ma se si abbandonava alla sonnolenza, i guai finivano lì: poteva essere ripescato e svegliato anche molto tempo dopo (non troppo, però, perché altrimenti sarebbe morto di fame). Evidentemente, c’era tanto idrogeno disciolto nei mari di Mesklin da mantenere un mesklinita in vita, ma non in grande attività fisica. Rosten si rallegrò visibilmente. Né Barlennan né gli altri meskliniti, poi, avevano notato niente di anormale quando la pressione atmosferica era calata così sensibilmente nel cuore del ciclone. — Insomma, si può sapere che cosa c’è di nuovo? — chiese Barlennan, impensierito. — Perché tutte queste domande? — Abbiamo scoperto — rispose Lackland — che l’aria sopra l’altopiano dove giace il nostro razzo, è molto più sottile di quella che si trova al tuo livello. Abbiamo quindi paura che non abbia abbastanza densità per mantenervi in buona salute. — Ma l’altopiano non è a più di cento metri di altezza: perché l’aria dovrebbe cambiare tanto in un tratto cosi breve? — Sempre a causa della tremenda gravità del tuo pianeta, ma ci vorrebbe troppo tempo per spiegarti tutto per bene, adesso. Posso però dirti che dovunque c’è un’atmosfera, 1’aria diventa sempre più sottile con l’altezza; e maggiore è la gravità, maggiore è il grado di rarefazione. Sul tuo pianeta, le condizioni sembrano toccare i limiti estremi. — Ma dov’è qui l’aria che voi definite normale? — Al livello del mare, riteniamo. Per lo meno tutte le nostre misurazioni sono fatte su quella base. Sei ancora disposto, Barlennan, a fare un ultimo tentativo di arrivare sopra quell’altopiano? Noi non insistiamo, se ciò deve rivelarsi uno sforzo eccessivo per il vostro fisico, ma… — Si capisce che sono ancora disposto! — lo interruppe il mesklinita. — Dopo tutto, siamo arrivati fin qua, e niente lascia supporre che le cose d’ora in poi debbano andare peggio di prima. Piuttosto, avete trovato una via accessibile per arrivare sull’altopiano, o siamo ancora nel campo delle supposizioni e delle speranze? — Abbiamo trovato quella che forse è una via accessibile — disse Lackland — a circa millecinquecento chilometri a monte della tua attuale posizione. Non sappiamo ancora se potrai arrampicartici; sembra trattarsi di una slavina rocciosa, una specie di canalone non molto ripido. Ma, data la distanza, non siamo stati in grado di valutare il volume delle rocce cadute. D’altra parte, esclusa quella strada, bisognerà rinunciare a salire sull’altopiano. L’intera scarpata è a strapiombo lungo tutto il perimetro del pianoro, tranne che in quel punto. — D’accordo, risaliremo il fiume. Non mi entusiasma l’idea di dovermi arrampicare su delle rocce di queste regioni, ma farò del mio meglio. — Ti avverto che impiegherai molto tempo ad arrivare fin là. — Non quanto credi, forse. C’è uno strano vento che soffia nella direzione in cui dobbiamo andare. È un vento costante, che non è mai cambiato né di direzione né di intensità da quando siamo qui. Non è forte come i venti marini, ma basterà a spingere la «Bree» controcorrente, se il fiume non diventerà troppo impetuoso. — Non pare che ci siano strettoie lungo tutto il suo corso, e non abbiamo notato la presenza di rapide sulle fotografie prese. — Bene, Charles. Partiremo appena le squadre dei cacciatori saranno tornate. A una a una le squadre tornarono, tutte con un po’«di cibo, nessuna con notizie degne di nota. L’ondulata distesa rocciosa si stendeva in tutte le direzioni seguite dalle varie squadre. Gli animali erano ovunque di dimensioni molto piccole, scarsi i corsi fluviali, la vegetazione molto rada, eccetto che nei pressi delle sorgenti, rare anch’esse. Il morale, piuttosto basso, migliorò notevolmente appena si sparse tra l’equipaggio la notizia che la «Bree» stava per salpare di nuovo. Quando la nave, ultimato il carico, scese nuovamente nelle acque del fiume, andò per qualche minuto alla deriva verso il mare, mentre si scioglievano le vele. Ma poi, gonfiate da quello strano vento costante, le vele dettero una spinta sufficiente a superare la forza della corrente, e la «Bree» cominciò la sua lenta, ma continua avanzata nelle terre ignote del più vasto pianeta che l’uomo avesse mai tentato di esplorare. Capitolo 16 LA VALLE DEL VENTO Barlennan si aspettava di vedere le rive del fiume farsi sempre più nude e desolate man mano che la «Bree» ne risaliva il corso; invece fu il contrario. Ciuffi di piante larghe e basse sul terreno, a forma di piovra, si addensavano sugli argini, tranne dove la muraglia, sulla sinistra, si spingeva troppo vicino al fiume, non lasciando spazio alla vegetazione. Dopo circa centosessanta chilometri, diversi affluenti cominciarono a gettarsi nel corso principale, e parecchi marinai sostennero di avere visto degli animali muoversi tra le piante delle rive. Ma il Comandante non autorizzò nessuna partita di caccia: aveva fretta di raggiungere la meta e di vedere finalmente la grande macchina che i Volatori avevano perduto nel deserto polare del suo pianeta. Ma ciò che stupiva ogni giorno di più Barlennan era il vento: non soltanto soffiava ininterrottamente, sempre con la stessa intensità, ma seguiva passo passo l’andamento del muraglione roccioso, tanto che la «Bree» procedeva sempre col vento in poppa. Barlennan aveva addirittura dimenticato da quanti giorni ormai non c’era più stato bisogno di cambiare la disposizione delle vele. Il fiume manteneva la sua larghezza originaria, come Lackland aveva avvertito. E anche se la corrente sembrava diventare più veloce, la nave non aveva rallentato, perché il vento pareva essersi contemporaneamente rafforzato. Passarono così chilometri e chilometri, giorni dopo giorni; i meteorologi cominciavano a essere tesi allo spasimo. Impercettibilmente, il sole saliva, mentre percorreva i suoi circoli nel cielo, ma le variazioni erano troppo lente perché gli scienziati su Toorey si convincessero che quella fosse la causa dell’accresciuta forza del vento. Divenne chiaro per terrestri e meskliniti che il mistero di quel vento andava ricercato in qualche caratteristica della conformazione fisica locale. Intanto, i chilometri continuarono ad accumularsi ai chilometri, e finalmente, nella direzione della prua, anche se molto lontano, apparve il varco del bastione roccioso. Per un lungo tratto il corso del fiume si allontanò e tutti poterono vedere il varco di fianco. Era un pendio quasi rettilineo, che, con un angolo di circa venti gradi, saliva dal fondo fino a una quindicina di metri dal ciglio del bastione. Man mano che si avvicinavano, poterono notare che il pendio era in realtà una slavina a ventaglio, che si allargava intorno a una fenditura di meno di cinquanta metri di larghezza. Dentro la spaccatura la pendenza diventava ripidissima, ma forse era ancora praticabile. Ogni conclusione definitiva era però impossibile fino a quando non fossero arrivati abbastanza vicini da vedere di quale natura erano i materiali che formavano la slavina. La prima impressione fu abbastanza incoraggiante: dove il fiume sfiorava il piede della frana, si notavano cumuli di piccoli massi, piccoli anche per il criterio di misura dei minuscoli meskliniti. Non doveva essere poi troppo difficile arrampicarsi su quelle pietre. Tuttavia, dopo un’ultima curva, mentre il fiume passava proprio davanti alla frana, il vento cominciò per la prima volta a cambiare bruscamente. Adesso soffiava di traverso dall’altopiano e la sua velocità aumentava a un ritmo straordinario. E quello che era risuonato come un dolce mormorio negli ultimi giorni, alle orecchie dei marinai e dei terrestri, riecheggiò con un boato fragoroso, ogni istante più forte. Solo quando la «Bree» giunse davanti all’apertura nel muraglione roccioso fu chiara anche la fonte di quel rombo. Una raffica di vento si abbatté sulla nave, minacciando di lacerare le vele e spingendo brutalmente la «Bree» in diagonale verso la riva più lontana dalla muraglia. Nello stesso momento il rombo aumentò ancora, raggiungendo quasi una violenza esplosiva, e in meno d’un minuto la nave si dibatteva in una tempesta che superava in furore tutte le altre che aveva attraversato da quando era salpata dalle regioni equatoriali. Poi, dopo pochi minuti, il ciclone parve cessare come per incanto; allora, ridotte le vele al minimo, Barlennan spinse la nave diagonalmente verso la riva opposta al varco. Poi corse alla radio e chiamò Charles per chiedergli una spiegazione di quello strano e incomprensibile fenomeno. Gli rispose la voce di uno dei meteorologi, e con suo grande stupore Barlennan senti che il tono dell’uomo vibrava di quello che era ormai abituato a riconoscere come un indizio di gioia. — Adesso si spiegano molte cose, Barl! Dipende tutto dalla forma concava di quell’altopiano! Vedrai che ti sarà molto più facile arrivare lassù di quanto avessimo creduto! Non riesco a capire perché non ci abbiamo pensato prima! — Pensato prima a che? — chiese Barlennan, al colmo dell’esasperazione. — A ciò che comporta una zona come questa, con una gravità, un clima e un’atmosfera simili! Ascolta: nella parte di Mesklin che tu conosci, l’emisfero australe, l’inverno coincide con il passaggio del pianeta nel suo punto più vicino al sole. La stagione corrispondente nell’emisfero settentrionale, o boreale, è: l’estate, durante cui la calotta polare evapora per il calore… ecco perché infuriano cicloni così violenti e continui nella stagione estiva. Questo, lo sapevamo già. L’umidità (è metano, comunque voi la chiamiate) condensandosi libera calore e riscalda l’aria del vostro emisfero, anche se non vedete il sole per tre o quattro mesi. La temperatura probabilmente sale fino al punto di ebollizione del metano… intorno ai -145 °C. alla vostra pressione superficiale. Non succede così, forse? Non avete molto più caldo d’inverno? — Sì — ammise Barlennan. — Benissimo, allora. Una temperatura più elevata significa che l’aria di Mesklin non si rarefà tanto rapidamente con l’altezza… si potrebbe dire che tutta l’atmosfera si espande. Espandendosi, trabocca oltre l’orlo dentro quella coppa vicino a cui ti trovi ora. Come l’acqua che si rovescia in una scodella quando questa affonda in un lavandino. Quindi, passato l’equinozio invernale, le bufere cominciano a calmarsi e Mesklin ad allontanarsi dal sole. Voi meskliniti soffrite il freddo, vero? E l’atmosfera ricomincia a contrarsi. Ma la coppa del polo ne tiene imprigionata una bella quantità, con una pressione superficiale più elevata, ora, di quella che all’esterno si trova a un livello corrispondente. Una parte ne trabocca, naturalmente, e tende a precipitare dall’alto del ciglio al fondo, ma viene deviata sulla sinistra dalla rotazione del pianeta sul proprio asse. È il vento prodotto da questa rotazione che ti ha spinto su per il corso del fiume. Ed è sempre lo stesso vento che ti ha investito poco fa con quella spaventosa bufera, riversandosi fuori dall’apertura della coppa e creando un vuoto pneumatico sui due lati del varco. — Hai pensato a tutto questo mentre io mi trovavo in mezzo a quell’inferno? — domandò Barlennan. — Sì. Ecco perché sono convinto che l’aria sull’altopiano deve essere più densa di quanto credessimo. Chiaro? — No. Ma se tu ne sei sicuro, ti credo sulla parola. Comincio ad avere sempre più fiducia nella scienza di voi Esseri Volanti. A ogni modo, scienza o no, che cosa capiterà a noi meskliniti nel salire quel pendìo? Una scalata come quella, con un vento simile che ti soffia contro, non sarà certo uno scherzo. — No, ma dovrai rassegnarti. Il vento si calmerà, prima o poi, ma penso che dovranno passare molti mesi prima che la coppa si liberi di gran parte dell’atmosfera… Forse un paio d’anni terrestri. Credo proprio, Barl, che ti convenga tentare la scalata adesso, senza ulteriori indugi. Barlennan rifletté. Sugli Orli del Mondo una simile bufera avrebbe strappato qualunque mesklinita dal suolo per gettarlo chissà dove. Ma sugli Orli, un vento del genere non avrebbe mai potuto formarsi, perché l’aria rimasta prigioniera nella coppa avrebbe conservato solo una frazione del suo peso attuale. Questa era una cosa che ormai Barlennan cominciava ad avere chiara in mente. — Partiamo subito! — disse bruscamente alla radio, e si girò per impartire gli ordini necessari all’equipaggio. La «Bree» fu guidata attraverso il fiume, dato che Barlennan l’aveva ormeggiata sulla riva più lontana dalla frana. Poi, tirata la nave in secco, l’equipaggio la legò a due pali preventivamente piantati sulla sponda, in mancanza di piante capaci di reggere il peso morto dell’imbarcazione. Cinque marinai furono scelti per rimanere a guardia della «Bree»; gli altri, carichi di vettovaglie e arnesi, si accinsero alla scalata senza perdere altro tempo. Per un po’«il vento non li disturbò, e in pochi giorni la colonna giunse su uno dei lati dell’apertura. Qui il vento soffiava con maggior forza e i massi diventavano più grossi, man mano che la marcia li portava lungo il ventaglio della frana. In prossimità del ciglio dell’apertura, il vento fuoriusciva con un rombo continuo che impediva lo scambio d’ogni parola. Ogni tanto dei mulinelli investivano il gruppo, dando loro un assaggio di ciò che li aspettava presso il varco. Tuttavia, sia pure con estrema lentezza, si arrampicavano senza sosta. Ma che il vento potesse rappresentare un grave pericolo, nonostante la gravità, divenne presto evidente. Un marinaio, assalito dalla fame, si era fermato dietro quello che gli era parso un riparo per prendere un po’«di cibo dal suo zaino. Subito un turbine di vento, originato probabilmente dalla sua stessa presenza, che aveva turbato l’equilibrio raggiunto dopo tanti anni da quella corrente incessante, aggirò la roccia dietro cui si riparava il marinaio e investi in pieno la sacca dello zaino: questa si aprì come un paracadute e strappò il poveretto dal suo nascondiglio, trascinandolo giù per il dirupo. Scomparve in un nugolo di polvere e di sabbia sollevate dal corpo, e i suoi compagni guardarono altrove, allibiti. Una caduta da soli quindici centimetri d’altezza, a quella gravità, bastava per morire; e il loro compagno ne avrebbe fatte molte di più prima di giungere in fondo alla slavina. A meno che il quintale e più del suo peso non fosse andato a schiacciarsi prima contro qualche masso, ammazzandolo lo stesso. I superstiti puntarono bene i piedi in terra e rimandarono ogni idea di mangiare a quando fossero stati al sicuro in qualche angolo riparato oltre il ciglio. Il sole fece moltissime apparizioni splendendo attraverso l’apertura. Moltissimi passaggi fece alle loro spalle, gettando la sua luce abbagliante nel varco dalla direzione opposta. Ogni volta che le rocce intorno si illuminavano, si trovavano un po’«più in alto, e ogni volta sentivano che il vento diventava un po’«meno furioso mentre sfiorava rombando i loro lunghissimi corpi. Il varco si era fatto sensibilmente più largo, il pendio meno ripido. Adesso potevano vedere il ciglio del precipizio, lì davanti ai loro occhi, allungarsi su ogni lato. Finché la strada, di fronte a loro, divenne praticamente orizzontale, e i meskliniti poterono spaziare con la vista sulle estese regioni dell’altopiano che li attendeva. Il vento era ancora forte, ma non più irresistibile, e a mano a mano che Barlennan guidava i suoi marinai verso sinistra, diminuì ancora. Alla fine, arrivarono in un punto dove una sosta non poteva rappresentare più un pericolo per nessuno. Tutti aprirono le sacche e gustarono il loro primo pasto dopo trecento giorni: un lungo digiuno anche per dei meskliniti. Saziata la fame, Barlennan cominciò a scrutare la terra che si stendeva davanti a loro. Aveva fatto fermare la colonna dietro un lato della fenditura nel muraglione, e il terreno davanti a lui scendeva dolcemente in quasi tutte le direzioni. Ma quello che vide era per lo meno scoraggiante. Le rocce erano enormi massi, intorno a ognuno dei quali sarebbe stato necessario fare un lungo giro, dato che non c’era la minima possibilità di arrampicarcisi sopra. Era assolutamente da escludere anche di poter marciare tutti insieme in fila indiana, nella stessa direzione: nessuno avrebbe potuto vedere a più di qualche metro di distanza, in mezzo a quelle rocce. E non c’era nemmeno da pensare di potersi orientare col sole. Sarebbe stato necessario tenersi abbastanza vicino (ma non troppo vicino, e al pensiero Barlennan non poté fare a meno di rabbrividire mentalmente) all’orlo del precipizio. Il problema di ritrovare il razzo, una volta giunti nei suoi dintorni, sarebbe stato risolto al momento: i Volatori non avrebbero certo fatto mancare il loro aiuto. Un altro problema di non facile soluzione era quello delle vettovaglie. Nelle sacche che ognuno portava sul dorso ce n’era a sufficienza per parecchio tempo, probabilmente anche per ripercorrere i millecinquecento chilometri che li separavano dal punto dove la «Bree» aveva fatto la sua prima lunga tappa. Ma ora occorreva decidere come fare e cosa fare per reintegrare in futuro le scorte alimentari, dato che quelle attuali non sarebbero mai bastate per arrivare al razzo, sostarci un tempo indeterminato e tornare indietro. Per un po’«Barlennan non vide alcuna via d’uscita; poi, lentamente, una soluzione cominciò a delinearsi. Dopo aver rimuginato ancora a lungo sui particolari, si decise e chiamò Dondragmer. Il Secondo sembrava essere in ottime condizioni morali e fisiche. Ascoltò gli ordini del Comandante senza mostrare la minima emozione. Dopo di che, chiamò a raccolta i marinai della sua squadra di vedetta e metà di quella del Comandante; furono ridistribuiti sacche e zaini; al gruppo relativamente poco numeroso che restava con Barlennan vennero consegnati tutti i viveri e tutta la corda, tranne l’equipaggiamento dell’intera compagnia di Dondragmer. L’esperienza precedente li aveva ammaestrati, e non volevano che si ripetesse. Conclusi questi preliminari, il Secondo non perse tempo: si voltò e guidò il suo gruppo verso la slavina su cui si erano arrampicati tanto faticosamente poco prima. Dopo qualche minuto la retroguardia della colonna, i cui componenti erano tutti legati l’uno all’altro dalla corda, scomparve nel profondo avvallamento che portava all’inizio della frana. Allora Barlennan si voltò verso gli altri. — Dovremo metterci seriamente a razione, d’ora in poi — disse. — Non cerchiamo di andare troppo veloci, perché non servirebbe a niente. La «Bree» tornerà alla vecchia base molto prima di noi, ma dovranno fare parecchi preparativi, prima di poterci aiutare. Voi due che avete le radio, tenetele; da conto come la cosa più preziosa che avete al mondo. Sono le sole che ci potranno dire quando saremo vicini alla nave; a meno che qualcuno non si offra volontario per andare (ogni momento a guardare giù dal, ciglio. Sia detto per inciso, anche questo potrebbe rendersi necessario, comunque; mai lo farò io, se si dovrà fare. — Partiamo subito, Comandante? — No. Aspettiamo che Dondragmer sua tornato a bordo. Se gli capitano dei guai, dovremo ricorrere a qualche altra soluzione, nel qual caso probabilmente dovremo tornare indietro anche noi. Frattanto Dondragmer con i suoi marinai era arrivato sull’orlo della frana. Dopo essersi assicurati di essere tutti saldamente legati in cordata, a un ordine del Secondo iniziarono la discesa. Ci vollero quattro o cinque giorni per compierla e risalire poi sulla «Bree». Il Secondo, appena a bordo, avvertì gli esseri umani su Toorey del suo ritorno alla nave, perché Lackland o qualcun altro comunicasse a Barlenman sull’altopiano che la compagnia di Dondragmer era giunta a destinazione sana e saliva. La messa in acqua della «Bree» fu resa possibile dal provvidenziale aiuto fornito dall’argano differenziale costruito con mezzi di fortuna da Dondragmer, sulla base di varie indicazioni ricevute dai terrestri. Durante il viaggio di ritorno il Secondo continuò a chiedersi come funzionasse quel prodigioso strumento. Molti terrestri seguivano i suoi sforzi mentali con un certo divertimento, ma nessuno lo dette a vedere e, soprattutto, nessuno cercò di togliere al mesklinita la possibilità di risolvere il problema con i propri mezzi. Perfino Lackland, nonostante le sue simpatie per Barlennan, era giunto da tempo alla conclusione che Dondragmer aveva un’intelligenza indubbiamente più sveglia del suo Comandante ed era certo che il mesklinita li avrebbe deliziati con un’esauriente spiegazione di meccanica teorica prima che la «Bree» raggiungesse la sua vecchia base. Ma si sbagliava. La posizione del razzo inchiodato al suolo era nota agli uomini su Toorey con la massima precisione: il margine d’incertezza non arrivava ai venti chilometri. Gli apparecchi automatici di trasmissione telemetrica contenuti nel suo scafo avevano continuato a funzionare per più di un anno terrestre dopo che il razzo non si era alzato in volo, non avendo reagito ai radiocomandi di decollo. E durante quell’anno era stata eseguita una quantità eccezionale di rilevamenti dal punto in cui si trovavano i telemetri. L’atmosfera di Mesklin non disturbava sensibilmente le trasmissioni radio. Anche la «Bree» poteva essere intercettata per radio, e questa possibilità valeva pure per la compagnia di marinai rimasti con Barlennan. Sarebbe quindi stato compito dei terrestri guidare i due gruppi, coordinarli, e condurli insieme, alla fine, al missile di ricerca interrato. La difficoltà stava nel prendere esattamente da Toorey i dati precisi delle rispettive posizioni: i tre obiettivi si trovavano tutti sull»«orlo» del disco, quale appariva da Toorey. Peggio ancora, la forma di Mesklin faceva sì che il minimo errore nel rilevamento del segnale di direzione poteva significare una deviazione di parecchie migliaia di chilometri sulla superficie dell’immenso pianeta. Per rimediare a questi inconvenienti, il razzo che aveva già preso tante fotografie di Mesklin fu lanciato ancora una volta e orientato lungo un’orbita circolare che sorvolava i poli a intervalli regolari. Da lì era possibile rilevare con sufficiente precisione i dati necessari in collegamento con le minuscole trasmittenti che i meskliniti si portavano dietro. Le difficoltà si ridussero ancora quando Dondragmer finalmente portò la «Bree» alla sua base primitiva e stabili una specie di accampamento. Ora veniva a esserci sul pianeta una trasmittente fissa, e questo consentiva di dire a Barlennan di quanto sarebbe avanzato entro un minuto o due, in qualunque momento avesse deciso di muoversi. La spedizione riprese la sua marcia monotona, ancora una volta preordinata… ma in questo caso preordinata dall’alto. Capitolo 17 UN’OPERAZIONE ARDITA Per Barlennan non era una marcia molto monotona. L’altopiano era proprio come l’aveva giudicato fin dal primo momento: arido, roccioso, senza vita, privo di punti di riferimento. Barlennan non osava allontanarsi troppo dall’orlo, perché temeva di perdere completamente l’orientamento se si fosse trovato in mezzo a quegli enormi massi. Le rocce nascondevano ogni particolare del tetro paesaggio, sovrastandolo come montagne, e non permettevano di vedere niente. La marcia in sé non era troppo difficoltosa. Il terreno era abbastanza pianeggiante, a parte le pietre e i massi che si dovevano evitare. Millecinquecento chilometri non sono esattamente una passeggiata per un uomo, ma rappresentano qualcosa d’indescrivibile per una creatura che non arriva ai quaranta centimetri di lunghezza e che, per camminare, deve strisciare sul terreno come un bruco. Inoltre, procedere in modo così tortuoso allungava il percorso. Il problema dei viveri cominciò ad assillare il povero mesklinita molto tempo prima che la spedizione fosse arrivata a destinazione. Più e più volte, chiese agli esseri umani lassù, sulla remota astronave, quanta strada gli rimanesse ancora da percorrere. Qualche volta riceveva una risposta, quasi sempre scoraggiante; altre volte il razzo si trovava sull’emisfero opposto del pianeta, e allora gli rispondevano da Toorey, e lui doveva attendere che facessero tutti i rilievi necessari. Le stazioni a relè funzionavano a pieno ritmo, ma non potevano essere utilizzate per una lettura di orientamento sulla sua radio. Non gli passò mai per la testa, se non quando la lunga marcia era quasi alla fine, che dopo tutto gli sarebbe convenuto tagliare attraverso i massi. Il sole non avrebbe potuto indicargli la direzione: faceva il giro completo dell’orizzonte in meno di diciotto minuti e sarebbe stato necessario un orologio estremamente preciso per calcolare il percorso reale in base alla sua direzione apparente. Tuttavia gli osservatori a bordo del razzo avrebbero potuto dirgli, in qualsiasi momento, se il sole si trovava di fronte, dietro o su questo o quel fianco della colonna rispetto alla direzione che lui intendeva prendere. Ma quando l’idea venne espressa a parole, la distanza che restava da percorrere poteva essere coperta facilmente rimanendo in vista del cornicione. L’orlo dell’altopiano correva quasi in linea retta dal punto in cui si trovava Barlennan alla meta tanto desiderata. Le scorte alimentari erano quasi esaurite quando la spedizione raggiunse un punto in cui, per le rilevazioni radio dei terrestri, la sua posizione e quella della nave coincidevano. Teoricamente era arrivato il momento di passare alla fase successiva del programma di Barlennan: il rifornimento delle vettovaglie. In realtà, c’era una cosa di estrema importanza che aveva la precedenza. Barlennan vi aveva accennato prima che la marcia avesse inizio, ma nessuno aveva riflettuto seriamente sul problema. Ma adesso bisognava affrontarlo. I terrestri avevano detto che la colonna si trovava alla massima vicinanza possibile dalla «Bree»: dovevano dunque esserci delle vettovaglie a non più di cento metri sotto di loro. Ma prima di fare una mossa qualsiasi per averle a portata di mano, qualcuno — se non parecchi — doveva sporgersi sul ciglio e guardare in basso. Dovevano pur rendersi conto della loro posizione rispetto alla nave! E poi bisognava costruire una specie di paranco per issare i viveri dal basso della muraglia fin sul cornicione. Insomma, dovevano affondare gli sguardi in un precipizio di cento metri: e i meskliniti avevano una percezione nettissima della morte. Eppure, era una cosa che bisognava fare, e che alla fine fu fatta. Barlennan, come competeva al suo rango di Comandante, dette l’esempio. Avanzò lentamente fino a un metro dal ciglio del burrone e spinse lo sguardo sul panorama che poteva vedere fino al lontano orizzonte, cioè le basse colline ondulate con tracce di vegetazione. Poi, piano piano, tornò indietro con lo sguardo seguendo le particolarità del terreno sempre più distinte e vicine, finché la sua visuale fu interrotta dall’orlo roccioso che gli stava davanti a un metro di distanza. Senza affrettarsi, guardò un po’«dappertutto, abituandosi a vedere cose che poteva considerare già sotto di lui. Poi, quasi impercettibilmente, si spinse in avanti per osservare un tratto sempre più vasto di terreno ai piedi del bastione roccioso. Infine il fiume stesso divenne visibile, e Barlennan si spinse ancora avanti quasi frettolosamente. Ecco la riva più lontana, con le impronte nitide delle piste lasciate dalle squadre di cacciatori prima di tuffarsi per raggiungere a nuoto attraverso la corrente la «Bree»; ed ecco sulla riva più vicina la sua nave, per nulla cambiata, con alcuni marinai adagiati sulle zattere e altri che si muovevano lentamente sopra la riva, nelle immediate vicinanze della nave. Lo spettacolo eccitò al massimo Barlennan, che si spinse innanzi di un altro intero contorcimento di tutto il corpo, e quel movimento lo portò con la testa oltre il ciglio del precipizio. E allora guardò giù, in basso lungo la verticale. Aveva creduto che l’essere issato sul tetto del trattore fosse l’esperienza più traumatica della sua vita. Ma adesso, sul ciglio di quel burrone, ciò che aveva provato allora gli sembrò cosa di poco conto. Barlennan non seppe mai come aveva fatto a ritornare verso l’interno del pianoro e non volle mai chiedere ai suoi marinai se fosse stato necessario il loro aiuto. Quando riprese i sensi, si trovava di nuovo sul solido terreno, ad almeno un paio di metri dal ciglio del burrone; tremava ancora tutto e non era sicuro di sé. Gli ci vollero alcuni giorni prima di ritornare perfettamente normale. Finalmente fu in grado di decidere quello che bisognava fare. Niente gli era successo finché il suo sguardo non si era staccato dalla «Bree». I suoi guai erano cominciati quando i suoi occhi avevano guardato dritto giù, lungo il filo della roccia, il terreno sottostante da un’altezza che per un mesklinita rappresentava una profondità abissale. I terrestri gli fecero notare questo particolare e Barlennan, dopo matura riflessione, fu d’accordo con loro. Il che significava che la spedizione poteva fare quanto era necessario: segnalare cioè la sua presenza ai marinai sulla sponda del fiume e provvedere a impiantare corde e carrucole per issare sul pianoro le vettovaglie. L’importante era di non affondare lo sguardo nell’abisso. Sarebbe bastato tenere la testa a un cinque o sei centimetri dall’orlo per non perdere l’equilibrio mentale e… la vita! Dondragmer non aveva visto la testa del suo comandante fare capolino dal cornicione dell’altopiano, ma sapeva che la colonna era arrivata a destinazione. I Volatori lo avevano costantemente tenuto informato degli sviluppi della situazione. Ora si mise a studiare molto attentamente con i suoi marinai l’orlo del cornicione, lassù, in alto, sopra la sua testa, mentre dall’altopiano spingevano sull’orlo un carico di materiali e lo facevano dondolare avanti e indietro. Il carico apparve ai marinai sul fiume, quasi a perpendicolo sopra la nave. Barlennan aveva potuto costatare, prima di perdere i sensi, di non trovarsi proprio nel punto giusto e aveva dato ordine di spostarsi prima di fare la segnalazione. — Benissimo, vi abbiamo visto — disse Dondragmer in inglese, e la frase fu ritrasmessa da uno degli uomini a bordo del razzo. Dopo che i primi pacchi di viveri furono issati sul ciglio del pianoro, Barlennan ordinò che gli venissero mandati su alcuni rotoli di corda, pennoni, pali e piccoli alberi di nave, insieme a varie pulegge di cui si era già servito per calare le varie parti della «Bree» dal bastione roccioso, nel distante equatore del pianeta. Tutto questo materiale fu utilizzato per la costruzione di un tripode e di altri congegni necessari a drizzare una specie di gru sull’orlo dello strapiombo. Dopo di che, grazie a una piattaforma perfettamente orizzontale e chiusa da un parapetto di corda, un grosso quantitativo di materiale cominciò ad affluire dalla nave al desolato pianoro della regione polare. Uno degli avvenimenti più straordinari in quella fase della spedizione fu quando la piattaforma — vero e proprio ascensore — comparve sull’orlo del pianoro non solo con a bordo una delle radio della «Bree», ma con lo stesso Dondragmer, che non si vergognò di confessare di avere tenuto gli occhi chiusi per tutta la salita. Dopo Dondragmer, l’ascensore fece altri dieci viaggi, ogni volta portando un marinaio. Quindi Barlennan ritenne opportuno di non ridurre ulteriormente il numero dei marinai rimasti a fare buona guardia alla «Bree» e a ricostruire le scorte alimentari. Ormai la tensione si era allentata, e ancora una volta la sensazione di essere quasi alla fine della missione si diffuse tanto fra i terrestri quanto fra i meskliniti. — Se aspetti due minuti, Barl — disse Lackland, trasmettendo al suo amico i dati elaborati dal calcolatore — il sole si troverà esattamente nella direzione che dovrai seguire. Ti abbiamo avvertito che non possiamo localizzare il razzo con un’approssimazione minore di dieci chilometri; perciò ti guideremo al centro della regione in cui siamo sicuri che si trova il razzo e da quel momento dovrai sbrigartela da solo. Se il terreno continuerà ad avere le stesse caratteristiche di adesso, sarà una faccenda piuttosto complicata, purtroppo. — Non temere, Charles: abbiamo superato difficoltà ben più gravi, anche se col tuo aiuto. Il sole è arrivato al punto giusto? — Un istante… ecco! E buona fortuna, Barl! Capitolo 18 IL RAZZO Furono necessarie alcune centinaia di giorni per superare l’ottantina di chilometri che li dividevano dalla zona in cui si trovava il razzo incagliato. La spedizione doveva ormai essere arrivata vicino all’astronave, ma i terrestri fecero sapere che non si vedeva traccia del razzo in quei paraggi. La cosa non stupì affatto Barlennan: c’erano rocce dappertutto. — Il razzo — gli disse Lackland — è alto circa sette metri e se tu riuscissi a salire su qualche grosso masso dovresti essere in grado di avvistarlo. Se tu potessi accatastare dei macigni più piccoli presso una grossa roccia, in modo da formare una specie di piano inclinato, con cui raggiungere la cima della roccia… Barlennan rifletté prima di rispondere e forse, se si fosse reso conto dell’enorme quantità di sassi che doveva accumulare, la sua risposta sarebbe stata diversa. Ma in quel momento l’idea di Lackland gli sembrò buona, e disse: — Credo che tu abbia ragione, Charles. C’è abbastanza roba, qui, per costruire tutto quello che si vuole. E si allontanò dalla radio per trasmettere i suoi ordini al gruppo di marinai più vicino. Se Dondragmer ebbe qualche dubbio sulla realizzazione della cosa, lo tenne per sé; e dopo pochi minuti l’intero gruppo stava facendo rotolare dei massi verso la roccia prescelta come osservatorio. Fu un lavoro faticosissimo e d’una lentezza esasperante. Tanto lento, che a un certo punto una parte del gruppo dovette ritornare alla gru per rifornirsi di nuove vettovaglie. Ma venne il giorno in cui i molteplici piedi dei meskliniti poterono posarsi sulla cima relativamente piana della roccia. E finalmente avvistarono l’obiettivo della spedizione! Lackland aveva avuto ragione! Barlennan aveva fatto trasportare sulla cima della roccia l’apparecchio radiotelevisivo in modo che anche i terrestri potessero vedere. E per la prima volta dopo oltre un anno terrestre, la dura faccia di Rosten perse la sua espressione di cocciuta incredulità. Non che ci fosse molto da vedere! Forse, una delle piramidi terrestri, ricoperta di corazze metalliche e posta a una grande distanza, sarebbe sembrata abbastanza simile a quel cono tronco che spuntava al di sopra della pietraia circostante. Non assomigliava al razzo che Barlennan conosceva: era infatti completamente diverso da tutti i razzi precedentemente costruiti in un raggio di venti anniluce dalla Terra. Ma nello stesso tempo era qualcosa di assolutamente estraneo al paesaggio di Mesklin. La colonna si rimise in marcia ancora una volta, per coprire i due chilometri e mezzo che la separavano dal razzo. Ma quando vi giunsero, i meskliniti si accorsero che il razzo spuntava dalla cima di una specie di altura, dalle pendici molto dolci, fatta di terriccio e di sassi. Una collinetta che sembrava essere sorta da qualche paurosa esplosione. Barlennan, che aveva già visto numerosi razzi provenienti da Toorey atterrare e decollare dalla superficie del pianeta, credette di avere capito cosa poteva essere successo e cosa avrebbero trovato una volta arrivati in cima al pendio. Il razzo si alzava verticalmente al centro di una fossa, una vera e propria coppa profondamente concava, scavata dalle esplosioni dei getti di decollo. La potenza di propulsione, pensò Barlennan, doveva essere stata enorme, data la spaventevole forza di attrazione gravitazionale da vincere. La base del razzo aveva un diametro di circa sette metri, cioè quasi pari alla lunghezza, e la forma era cilindrica fino a un terzo dell’altezza totale. Quella, spiegò Lackland quando l’apparecchio radiotelevisivo fu trascinato su per il pendio fino a inquadrare l’interno della fossa, era la sezione del razzo che conteneva l’apparato di propulsione. La parte superiore si assottigliava rapidamente fino a terminare in una punta smussata e tronca, ed era lì che si trovavano gli strumenti e gli apparecchi scientifici che erano costati un’infinità di tempo, studi, fatiche e denaro a tanti pianeti civilizzati. In quella sezione del razzo si vedevano molte aperture, perché non c’era stato bisogno di chiudere i vari settori a compartimenti stagni. — Una volta hai detto — disse Barlennan a Lackland — che uno scoppio come quello che aveva distrutto il tuo trattore doveva essersi verificato anche a bordo di questo razzo. Eppure non vedo nessuna traccia di esplosioni qui dentro. E se le porte erano già aperte quando il razzo ha toccato terra, come poteva essere rimasto a bordo ossigeno sufficiente per provocare un’esplosione? Me l’hai detto proprio tu che tra i mondi non esiste nessun tipo di aria e che quel poco che c’era sarebbe sfuggito fuori da qualunque apertura. Rosten s’intromise nella conversazione prima che LackJand avesse tempo di rispondere (tanto Rosten che gli altri avevano osservato a lungo il razzo sul loro schermo): — Barl ha perfettamente ragione: la causa del disastro, qualunque sia stata, non si deve certamente far risalire a un’esplosione da ossigeno. Dovremo tenere gli occhi bene aperti, quando entreremo nel razzo, proprio nella speranza di scoprire questa causa. Anzi, direi di metterci subito al lavoro: ho tutto uno stuolo di fisici che pende dalle mie labbra in attesa d’informazioni. — Voi, signori scienziati, dovrete avere la bontà di aspettare ancora un po’’— disse Barlennan. — Credo che vi siate dimenticati di una cosa. — E cioè? — Nessuno degli strumenti che desiderate osservare attraverso la lente del vostro apparecchio radiotelevisivo si trova a meno di due metri dal suolo, e tutti sono protetti da pareti metalliche che mi sembrano piuttosto difficili da rimuovere con la semplice forza delle nostre braccia, per teneri che siano i vostri metalli. — Accidenti! Hai ragione anche questa volta, Barl! Bisognerà studiare un modo per risolvere questo ennesimo problema. — Hai tempo di escogitare la soluzione finché non arriverà anche il marinaio che ho lasciato di guardia sulla rocciaosservatorio. Se per quel momento non avrai trovato nulla di pratico, proveremo la mia idea. — E quale sarebbe questa tua idea? — Siamo riusciti a salire sulla roccia da cui abbiamo avvistato il razzo: che cosa ci impedisce di usare lo stesso sistema per arrampicarci sul razzo? Rosten rimase in silenzio per almeno mezzo minuto, e Lackland ebbe il sospetto che si desse mentalmente dell’idiota. — Niente ve lo impedisce — rispose alla fine Rosten. — Se non che questa volta dovrete fare un lavoro molto più complesso per costruire un piano inclinato di massi accatastati. Il razzo è almeno tre volte più alto di quella roccia, e poi dovrete girargli tutt’intorno, mentre per la roccia è stato sufficiente lavorare da una parte sola. — Non potremmo spingerci fino alla prima apertura e poi proseguire dall’interno? — No, perché il razzo non è stato costruito per contenere esseri viventi e non ci sono corridoi di comunicazione fra le varie parti. Tutti gli strumenti sono stati disposti in modo da essere raggiunti dall’esterno. Ho paura che bisognerà seppellire il razzo con terra e massi fino a raggiungere il livello di apertura più alto, subito sotto la punta, che contiene gli strumenti e di là aprirvi lentamente la strada verso il basso, un livello dopo l’altro. Forse sarà meglio rimuovere il macchinario da ogni sezione, a mano a mano che scendi. Tutto questo dovrebbe ridurre al minimo il peso. Alla fine, dopo che avrai tolto tutte quelle piastre metalliche dal razzo, non sarà rimasto che un esile scheletro di travature. Barlennan rifletté a sua volta. Poi: — Capisco. E non vedi nessun’altra alternativa a questo tuo progetto? Comporta un sacco di lavoro. — Non ne vedo altre, per il momento. Ma può darsi che per quando il tuo marinaio sarà di ritorno dalla roccia, ci sia venuto in mente qualcos’altro. Il guaio è che non possiamo mai studiare una soluzione che non implichi la necessità di farti avere macchine che non siamo in grado di mandarti giù. — È una cosa che avevo notato già da molto tempo. Il sole continuava a fare il giro del cielo a una velocità leggermente superiore ai venti gradi al minuto. I marinai scendevano a turno nella fossa scavata dai getti di propulsione per osservare il razzo da vicino. Erano tutti troppo intelligenti, per considerare la macchina come qualcosa di soprannaturale; tuttavia ne erano sbalorditi. Quando finalmente arrivò il marinaio rimasto di guardia alla roccia, Barlennan chiese ai terrestri se avevano trovato un’altra soluzione; ma a quanto pareva la sua idea era ancora la più intelligente. E allora non rimase che mettersi al lavoro. Nemmeno in quella fase passò per la testa agli osservatori venuti da un altro pianeta e immobilizzati su Toorey, la luna più interna di Mesklin, che il mesklinita avesse un suo personale progetto circa il loro razzo. D’altra parte, se anche avessero cominciato ad insospettirsi, sarebbe stato troppo tardi… per porvi rimedio. Cosa strana, il lavoro, non si rivelò né così difficoltoso né così lungo come avevano sospettato. Il motivo era semplice: le rocce e la terra spazzate via dai getti del razzo non avevano ancora formato una massa compatta, perché l’aria sull’altopiano era troppo rarefatta per provocare le piogge che avrebbero indurito il terreno. A poco a poco, i terrestri videro sui loro schermi la massa lucente del missile sparire dentro una montagna di terriccio fino a trentacinque centimetri dalla punta tozza, cioè fino al livello più alto in cui erano stati installati gli strumenti. A questo punto il lavoro fu sospeso e Barlennan si portò davanti allo sportello, aspettando dai terrestri le istruzioni necessarie per aprirlo ed entrare. Si trattava di svitare alcuni bulloni che interrompevano il circuito: lavoro che le pinze di Barlennan potevano fare altrettanto bene di una comune chiave inglese. Il Comandante si mise all’opera: il sole, entrando a fiotti nello scafo appena aperto, fece luccicare il metallo di un meccanismo che si trovava vicino all’entrata. Un urlo di gioia si levò dai petti degli uomini davanti agli schermi dell’osservatorio lunare, e del razzo gravitante attorno al pianeta. — Ce l’abbiamo fatta, Barl! — esclamò Rosten. — Ti dobbiamo più di quanto si possa mai dire! Adesso, se ti tirerai indietro di qualche passo e ci lascerai vedere meglio l’interno, ti daremo subito le istruzioni per togliere il registratore da dove si trova e applicarlo alla lente dell’apparecchio radiotelevisivo. Ma Barlennan non si mosse né rispose subito. Fu la sua immobilità a parlare, prima ancora delle sue parole. Non si tolse dalla visuale. Anzi, girato completamente l’apparecchio radiotelevisivo così da togliere del tutto ai terrestri la vista del razzo, disse con dolcezza: — Ci sono alcune cose di cui dobbiamo parlare, prima. Capitolo 19 NUOVO ACCORDO Un silenzio mortale regnò nella sala dei teleschermi, sulla lontana luna, dopo la dichiarazione di Barlennan. La testa del piccolo mesklinita riempiva completamente lo schermo, ma nessuno avrebbe potuto interpretare l’espressione di quella faccia assolutamente «non umana». E nessuno fu capace di pensare a qualcosa da dire. Barlennan attese ancora un lungo istante, prima di riprendere a parlare, e quando lo fece, il suo inglese fu ancora più corretto e preciso di quello che Lackland avesse immaginato. — Rosten, professore, poco fa hai detto di doverci più di quanto si possa dire. So che le tue parole erano sincere, in un certo senso, anche perché non posso dubitare nemmeno per un attimo della sincerità della vostra gratitudine. Ma in un altro senso potremmo anche definirle del tutto retoriche. Tu non avevi nessuna intenzione di darci più di quanto avevi già concordato di darci: informazioni e previsioni di carattere meteorologico, una guida attraverso mari nuovi, forse quell’aiuto materiale cui Charles accennò una volta, tempo fa, per quanto riguarda l’acquisto delle spezie. Mi rendo perfettamente conto che in base al vostro codice morale, io non ho diritto a niente di più, perché ho accettato fin dal principio questo accordo. «Ciò nonostante, io voglio di più. E siccome ho imparato a considerare e a stimare l’opinione di almeno alcuni dei vostri compagni, voglio spiegare perché sto facendo quello che faccio. Desidero insomma giustificare il mio comportamento. Ma vi dico fin d’ora che in ogni caso, sia che riesca ad accattivarmi la vostra simpatia, sia che non vi riesca, intendo fare esattamente quello che ho in mente di fare. «Sono un mercante, come ben sapete, e mi preme soprattutto il baratto di tutte quelle merci da cui possa trarre un profitto. Voi mi avete offerto tutto il materiale che potevate in cambio del mio aiuto; non è colpa vostra se quel materiale a me non serviva. Le vostre macchine, mi avete detto più volte, sia tu, sia Lackland, non potevano funzionare con la gravità e la pressione che dominano sul mio pianeta. Dei vostri metalli non avrei potuto servirmi, e se lo avessi potuto si sarebbero rivelati inutili. Conosciamo la cosa che voi chiamate fuoco anche sotto aspetti più miti e controllabili della nube di fuoco che usiamo contro i nostri nemici. «Ho rifiutato perciò tutte le cose che volevate darmi, meno la guida e le previsioni del tempo; ma ho accettato lo stesso di fare per voi il viaggio d’esplorazione più lungo che sia mai stato compiuto nella storia del mio pianeta. Mi avete parlato molte volte dell’immensa importanza che ha per voi la conoscenza tecnica e scientifica, ma a nessuno di voi, a quanto pare, è mai venuto in mente che anche per me la scienza e le sue applicazioni potessero avere la stessa importanza. E questo, benché non mi sia mai lasciato sfuggire l’occasione di interrogarvi su tutte le vostre conoscenze. Non avete mai voluto rispondere alle mie domande, ogni volta che vedevo una vostra nuova macchina, ricorrendo sempre alla stessa scusa. Per cui, alla fine, mi sono convinto che qualunque modo avessi usato per impadronirmi di qualche frammento della vostra scienza, sarebbe stato legittimo. Più volte, ho sentito te, professore, e Lackland vantare il valore della scienza, sempre sottintendendo il fatto che noi di Mesklin non la possediamo. Non capisco proprio perché, se la scienza è utile e importante per la vostra gente, non debba esserlo anche per la mia. «Adesso potete capire perché mi sono sobbarcato le fatiche di questa spedizione: come voi, sono venuto fin qui per imparare. Voglio conoscere le ragioni che vi permettono di compiere imprese così grandi. Tu, Charles, hai vissuto tutto l’inverno in un ambiente che ti avrebbe ucciso all’istante, se non fosse stato per l’aiuto di questa vostra scienza. E dunque, la scienza è qualcosa di cui neppure il mio popolo può fare a meno. «Vi offro quindi un nuovo accordo. È molto semplice: scienza per scienza. Voi insegnate tutto quello che c’è da imparare a me, oppure a Dondragmer o a chiunque altro del mio equipaggio che sia in grado d’imparare presto e bene, nel periodo di tempo che noi impiegheremo a smontare questa macchina per voi.» — Un momen… — Scusi, capo — disse Lackland, tagliando corto alle proteste del suo superiore. — Conosco Barl molto meglio di voi. Lasciate che gli parli io. Nella sala dei teleschermi i due esseri umani si guardarono: Rosten lanciava fiamme dagli occhi. Ma poi, rendendosi conto della situazione obiettiva, cedette: — E va bene, Charlie. Parla tu. — Barl, mi sembra di avere sentito del disprezzo e del sospetto nelle tue parole, quando mi hai parlato di scuse a cui noi ricorreremmo per non spiegarti il funzionamento delle nostre macchine. Eppure devi credermi, se ti dico che non volevamo ingannarti. Sono macchine terribilmente complicate, le nostre. Così complicate che gli uomini che le disegnano e le costruiscono passano metà della loro vita, prima, per imparare le leggi in base a cui esse funzionano e per studiare i sistemi tecnici con cui costruirle. Non volevamo sminuire minimamente il grado d’istruzione o l’intelligenza dei meskliniti. È vero che noi sappiamo di più, ma soltanto perché abbiamo avuto più tempo per studiare. «Ora, hai detto che vuoi imparare il funzionamento degli strumenti e delle macchine che si trovano a bordo del razzo, mentre le smontate. Barl, ti prego di credermi quando ti dico sinceramente che io non potrei insegnarti niente, perché non capisco come sia fatta una sola di quelle macchine e che tu stesso non potresti trarne il minimo vantaggio, anche ammesso che riuscissi a comprenderne il funzionamento. Il massimo che ti posso dire è che si tratta di strumenti per misurare cose che non si possono né vedere, né sentire, né assaporare, né udire: cose che dovresti vedere in azione sotto altri aspetti per un lungo tempo, prima di poter cominciare a capirne qualcosa. Non è un’offesa: tutto questo vale in parte anche per me, che da quando sono al mondo vivo circondato da queste forze, e spesso anche me ne servo. Pensa che non ho neanche la speranza di riuscire a capirle prima di morire! La nostra scienza copre ormai un campo di conoscenze così vaste che nessuno al mondo potrebbe nemmeno cominciare a impararle tutte, e anch’io devo accontentarmi del piccolo settore di mia competenza, aggiungendovi forse quel poco che un uomo può apprendere durante un’intera vita. «Non possiamo perciò accettare il tuo patto, Barl. Per la semplice ragione che è praticamente impossibile applicarlo da parte nostra.» Barlennan non poteva sorridere nel senso umano del termine e si guardò bene dal lasciar trapelare la sua versione dell’equivalente mesklinita. Disse quindi, nello stesso tono grave di Lackland: — Tu puoi fare la tua parte, Charles, anche se non sai. Ricordo che a proposito degli alianti, mi hai detto che velivoli di quel genere erano stati inventati e usati sul tuo pianeta nel passato, oltre duecento dei vostri anni fa. Posso immaginare quanto ne sappiate di più oggi, e quante siano le cose che noi non sappiamo ancora. Perciò potete fare lo stesso quello che vi chiedo. Lo avete già fatto, anche se in minima parte, mostrandoci, come funziona quell’argano differenziale. Io non ci capisco niente, e nemmeno Dondragmer che ci ha studiato sopra più tempo di me, riesce a capire come e perché funziona, ma siamo sicuri entrambi che in certo qual modo quell’argano è parente delle leve che noi usiamo dall’antichità più remota della nostra razza. Noi vogliamo cominciare dal principio, anche se sappiamo che non potremo mai imparare tutto ciò che voi sapete nello spazio di una generazione. La nostra unica speranza è di imparare abbastanza per arrivare a scoprire da noi come siate riusciti a inventare tante cose. Capisco anch’io che in un campo come questo non si tratta di buttarsi a indovinare e nemmeno di fare della filosofia, come fanno i nostri sapienti che ci dicono che Mesklin è una coppa. Su questo punto sono pronto ad ammettere che hai ragione. Ma mi piacerebbe sapere come avete fatto voi a scoprire la forma del vostro mondo. Voglio sapere, per esempio, perché la «Bree» galleggia e perché la canoa per un po’«ha fatto lo stesso. Voglio sapere che cosa ha stritolato la canoa e perché il vento soffia ininterrottamente attraverso quello spacco del muraglione… no, non ho capito la spiegazione che me ne hai dato a suo tempo. Voglio sapere perché sentiamo più caldo d’inverno, quando non possiamo vedere il sole per il periodo di tempo più lungo. Voglio sapere perché il fuoco arde e perché la polvere di fiamma uccide. Voglio che i miei figli o i loro figli, se mai ne avrò, sappiano che cosa fa funzionare questa radio, il tuo trattore, questo razzo. Sì, riconosco che voglio sapere troppo, molto di più di quanto riuscirò mai a imparare. Ma se potrò portare la mia gente a imparare con i suoi mezzi, come dovete avere fatto voi… ebbene, quel giorno non m’interesserà più di vendere per il profitto! Un lunghissimo silenzio seguì al discorso di Barlennan. Fu Rosten che alla fine ruppe quel penoso silenzio: — Barlennan, se tu imparassi tutto quello che vuoi e cominciassi a insegnarlo ai tuoi simili, saresti disposto anche a rivelare da dove ti è venuta questa scienza? Credi che gioverebbe al tuo popolo saperlo? — Per alcuni, sì: sarebbe un bene. Vorrebbero sapere degli altri mondi che popolano lo spazio e degli altri esseri umani che hanno seguito prima di loro la stessa via della conoscenza. Altri… bè, ci sono molti dei nostri simili che preferiscono non spremersi troppo le meningi. Se sapessero la verità, non si prenderebbero la briga di imparare a loro volta, chiederebbero solo di essere messi al corrente di tutto quello che li incuriosisce come facevo io ai primi tempi. E non ci crederebbero mai, quando si sentissero rispondere che non si può spiegare perché non capirebbero. Penserebbero che li si voglia ingannare. Immagino che se dicessi a tutti da chi ho saputo certe cose… no, credo che sarebbe meglio lasciar credere che il genio sono io. O magari Don: è più facile che credano che sia lui, il genio. La conclusione di Rosten fu breve e precisa: — L’accordo è fatto. Capitolo 20 IL VOLO DELLA «BREE» Uno scintillante scheletro metallico si ergeva per tre metri sopra un’elevazione di rocce e terriccio dalla cima piatta. Alcuni meskliniti erano attivamente occupati a staccare un’altra serie di piastre corazzate, mentre altri provvedevano a trasportare il materiale di scavo ai margini del monticello. Altri ancora andavano e venivano per una strada che si allontanava con un tracciato ben evidente nel deserto, spingendo tutti delle carrette piatte e dalle ruote molto piccole: quelli in partenza le portavano vuote, quelli che tornavano stracariche di viveri. La scena era particolarmente movimentata: ognuno pareva intento a uno scopo ben definito. C’erano due apparecchi radio adesso bene in vista, uno sull’altura artificiale, dove un essere umano stava dirigendo dal lontano laboratorio su Toorey l’opera di smantellamento, e l’altro a qualche distanza dal primo. Dondragmer si trovava davanti al secondo apparecchio, impegnato in un’animata discussione col terrestre, che il mesklinita non poteva vedere. Il sole proseguiva i suoi interminabili giri, ma stava gradualmente scendendo, ormai, e diventando a poco a poco sempre più dilatato. — Ho paura — disse il Secondo — che incontreremo difficoltà non indifferenti nel verificare quello che ci hai detto sulla curvatura della luce. La riflessione di un raggio di luce è per me un fenomeno facilmente comprensibile; gli specchi che ho fatto con le lastre metalliche del vostro razzo me l’hanno chiarito. Ma è un prisma che mi manca, ora. — Anche un frammento di lente abbastanza grande potrà servire allo scopo, Don — disse la voce nell’altoparlante. Non era quella di Lackland. Lackland era un ottimo ingegnere, come Dondragmer aveva potuto costatare, ma talvolta cedeva il microfono a uno specialista. — Qualunque pezzo di lente potrà incurvare la luce e perfino tracciare un’immagine… ma aspetta: di questo ti parlerò più avanti. Cerca ora di trovare la lente che è caduta per terra dallo strumento che ti abbiamo mandato. Sempre che la forza di gravità non l’abbia sbriciolata quando ha toccato il suolo. Dondragmer si staccò dall’apparecchio radio con sollecita premura. Poi si girò, a un tratto, per un pensiero che gli era venuto all’improvviso e tornò sui suoi passi: — Forse potresti dirmi di che cosa è fatto questo «vetro» e se ha il potere di assorbire parecchio calore. Noi abbiamo fuochi molto caldi, sai. E poi c’è anche quella sostanza che si trova sopra la coppa… ghiaccio, mi pare che l’abbia chiamato Charles. Questo ghiaccio, credi che possa servire allo scopo? — Sì, conosco i vostri fuochi, per quanto non riesca a capire come diavolo facciate a bruciare delle piante in un’atmosfera a base d’idrogeno, buttandoci anche sopra della carne. Per il resto, il ghiaccio dovrebbe senz’altro andare bene, se riesci a trovarne un po’. Non so di che cosa sia fatta la sabbia del vostro fiume, ma puoi tentare di fonderla con uno dei vostri fuochi più caldi e vedere che cosa ne salta fuori. Però non posso darti nessuna garanzia, naturalmente. Mi limito a dire che sulla Terra e sugli altri pianeti che conosco, la sabbia comune serve a fare una specie di vetro, che si può migliorare di molto con l’aggiunta di altre sostanze. Ma che mi venga un accidente, se sono capace di descriverti queste sostanze e di indicarti dove trovarle. — Grazie. Farò provare a qualcuno l’esperimento del fuoco. Nel frattempo, cercherò un pezzo di lente, anche se ho paura che la caduta abbia lasciato ben poco di utilizzabile. Il Secondo si staccò ancora una volta dalla radio e si trovò, dopo pochi passi, davanti a Barlennan. — È ora che la tua squadra inizi il lavoro alle piastre metalliche — disse il Comandante. — Io scendo al fiume. C’è nulla laggiù che possa facilitare il tuo lavoro? Dondragmer accennò a quanto aveva saputo della sabbia e concluse: — Credo che potrai portarmene un po’«per un esperimento, senza dover aumentare il processo di combustione. Oppure avevi già deciso di fare un carico di altre cose? — Non ho deciso niente di speciale. Faccio questa escursione per puro svago. Adesso che il vento di primavera si è calmato e abbiamo brezze che soffiano da tutte le direzioni conosciute, un po’«di pratica nautica potrebbe essere utile. A che serve un Comandante che non sa pilotare la sua nave? — Hai ragione. I Volatori ti hanno detto per caso a cosa serviva questo ponte delle macchine? — Sì, me ne hanno parlato. Ma se io fossi veramente convinto di questa storia della curvatura dello spazio, l’avrei capita meglio. Concludono sempre con il solito ritornello, che le parole non bastano a rendere il senso preciso di ciò che intendono dire. Cos’altro si può usare se non le parole, in nome di tutti i Soli? — Ci ho pensato anch’io molto spesso. Credo che sia un altro aspetto di quel loro calcolo delle grandezze e delle quantità che chiamano matematica. Io preferisco la meccanica: si può fare qualcosa di utile con la meccanica, fin dal principio. E indicò con una delle pinze i carri bassi, dalle minuscole ruote, e poi il punto dove si trovava l’argano differenziale. — Deve essere come dici tu. Avremo una quantità incredibile di idee nuove da riportare in patria. Anche se alcune dovremo stare attenti a non divulgarle troppo. Il Comandante riprese la sua marcia, e Dondragmer rimase a guardarlo allontanarsi con un misto di gravità e d’ironia. Il Secondo avrebbe proprio voluto che Reejaaren fosse presente: non aveva mai avuto simpatia per quell’isolano. Ora, forse, sarebbe stato molto meno convinto che tutto l’equipaggio della «Bree» fosse formato esclusivamente da barbari bugiardi. Ma quel genere di pensieri non erano che una perdita di tempo, e Don si affrettò ad arrampicarsi sul fianco del monticello, verso le piastre del razzo. Barlennan prosegui verso la «Bree». Era già stata preparata per il viaggio, con due marinai a bordo e il suo fuoco a temperatura molto elevata. L’enorme involucro di tessuto lucente, quasi translucido, lo divertì. Come il Secondo, pensava a Reejaaren e alle sue possibili reazioni se avesse visto come venivano utilizzate le sue merci. Vatti a fidare dei marinai, qualunque sia il loro pianeta! E la gente di Barlennan la sapeva lunga, anche senza l’amichevole aiuto dei Volatori. Si insinuò attraverso l’apertura della ringhiera di corda, si assicurò che gli fosse stata chiusa alle spalle e andò a dare un’occhiata al pozzo del fuoco, che era foderato di lastre sottilissime di un metallo speciale, un dono dei Volatori che le avevano tolte a un condensatore. Tutti i cordami sembravano perfettamente tesi e resistenti. Barlennan fece un segno ai marinai. Uno di loro gettò nel pozzo altri pezzi di legna, per alimentare il falò incandescente, senza fiamma. Un altro mollò gli ormeggi. Dolcemente, con l’involucro sferico di tessuto rigonfio in tutti i suoi quindici metri di diametro e pieno di aria calda, la nuova «Bree» — prima mongolfiera di Mesklin — si sollevò dall’altopiano e scivolò via senza scosse in direzione del fiume, sulle ali di un vento gentile. FINE